Si intrecciano ancora i fili di un destino crudele? Pare di sì. Il 4 febbraio si chiuderà la bella retrospettiva di Giorgio Morandi al Palazzo Reale di Milano e pochi giorni dopo, il 13 febbraio, cadrà il 50mo della morte di Francesco Arcangeli con le inevitabili celebrazioni. La mostra riassuntiva milanese è stata l’occasione per mettere di nuovo a fuoco e discutere, armandosi del necessario distacco, la figura-mito di Morandi. Non poteva perciò mancare in catalogo (24 Ore Cultura) una lunga scheda dedicata alla sfortunata monografia arcangeliana. Stella Seitun, autrice della scheda, ripercorre sintetizzando la vicenda culminata con la rottura del rapporto d’amicizia che legava i due da lunga data, fino alla «disistima morale» – lo si legge nelle lettere – da parte dell’artista nei confronti del critico.

Il lavoro di sintesi poggia soprattutto sul meticoloso studio di Luca Cesari, che ha pubblicato nel 2006 la seconda stesura – la più veritiera – della monografia arcangeliana, corredata da appendici molto interessanti, una delle quali raccoglie la serie di lettere che scandiscono i tempi del lungo, drammatico crescendo: uno scontro di personalità di natura tanto diversa, ma anche uno scontro generazionale e di «ruoli», quello del critico che colloca l’artista in una prospettiva storica e quello dell’artista che dichiara di essere solo e unicamente interessato alla pittura.
Ora, a sessant’anni esatti dalla sua prima apparizione nelle Edizioni del Milione, Seitun spende per la monografia arcangeliana l’aggettivo «magistrale», non allontanandosi di molto dalla datata definizione di Dario Trento, per il quale sarebbe per sempre rimasta la monografia di Morandi con quella scoperta della sua modernità «in quella medietà esistenziale di vita, che ha per strumento fondamentale il suo tono» (Arcangeli).

E dire che «l’impresa» era nata sotto i migliori auspici diversi anni prima, nel 1951, con la richiesta dello stesso Morandi al giovane critico di compiere uno studio sul suo lavoro, in modo tale da aggiornare quello del ’39 di Cesare Brandi. Un’investitura che non doveva essere un mistero nel mondo degli storici dell’arte, se anni dopo l’amico e maestro Roberto Longhi, un altro protagonista nella vicenda, comunicava ad Arcangeli il desiderio di tutti di vedere presto pubblicato il suo studio su Morandi. Si rivelò un entusiasmo di breve durata.

Arcangeli cominciò il lavoro di stesura nell’estate del 1960, con un’energia che non conobbe sosta per mesi. Aveva maturato nel corso del precedente decennio una sua idea dell’arte moderna, una particolare «teoria» che elaborò in due saggi: Gli ultimi naturalisti nel 1954 e Una situazione non improbabile tre anni dopo. Questi testi germinarono la monografia. Arcangeli pensò di aver trovato sulla scorta di essi una chiave di lettura aggiornata dell’opera del maestro bolognese, recepita e amata in primis attraverso la lezione di Longhi. «Pagine che una decina di anni fa avrei vergato diversamente», scrive nel libro; cioè fin quando non si immerse nella scena artistica contemporanea e di conseguenza nella costruzione di un’identità storico-artistica padana che sentiva tramandarsi nei secoli fino al suo tempo.

A sessant’anni di distanza la ricostruzione del percorso morandiano compiuta da Arcangeli non ha per niente perso di smalto. Il critico ci rivela la varietà e la complessità dell’artista, tanto da restarne ancora sorpresi. Che la sua lettura fosse «splendida», fornendo moltissimi nuovi apporti, glielo scrisse lo stesso Longhi nell’aprile del ’62, letto il dattiloscritto, quando già erano chiari i segnali di rottura tra critico e artista; ma proseguiva poi dicendosi in disaccordo con quel divagare tra riferimenti nell’arte del passato e soprattutto del presente, tra letteratura, storia, filosofia e politica, perché infine – sosteneva – «a furia di ambientare si sbocconcella l’arrosto in pro’ del contorno». Ancora oggi rileggendo non si ha questa impressione: i contorni ci sono, ma il lettore si gusta anche l’arrosto, eccome!

Si è poi affermato che il Morandi sia pure l’autobiografia di Arcangeli, cosa che non mi pare esatta; piuttosto, il suo testo risponde a una visione onnicomprensiva dell’arte, una storia dell’arte che non può essere disgiunta dalla critica d’arte e che diviene per lui un fatto esistenziale, vissuto in prima persona (inconcepibile oggi). Un concetto ribadito nel discorso pronunciato anni dopo, nel 1969, in occasione del Premio Feltrinelli, in cui dichiarò di voler «far coincidere in me stesso la storia dell’arte e la critica d’arte».

Quando Arcangeli affrontò il Morandi, la sua grande costruzione del contemporaneo era ormai cosa fatta. Il problema di fondo, scrisse Longhi sempre nella stessa lettera, è che mentre il giovane critico osservava positivamente gli sviluppi recenti dell’arte, lui invece, salvi pochi casi, li giudicava negativamente. Ma nasce il sospetto, quando Longhi vede nell’opportunità pratica di esporre il solo, o quasi, motivo d’interesse di Morandi per il Futurismo, che parli col senno dello storico di lungo corso, non riportando più Morandi e sé stesso agli entusiasmi giovanili. E da qui l’assunto: «bisogna accettare la sua responsabilmente accettata solitudine».

Ciò corrispondeva in sostanza alla posizione dello stesso Morandi, così almeno come riportata in appendice nell’edizione curata da Cesari; critiche, quelle dell’artista, che vertevano in gran parte sui riferimenti esterni alla sua opera: Dada, Picasso, Permeke, Mondrian, Informale… Sarebbe interessante confrontare puntualmente i dipinti di Morandi con quelli di alcuni degli artisti evocati da Arcangeli; ad esempio con Permeke, Soutine o De Staël. In verità nel suo testo Arcangeli opera sempre con grande sensibilità, e – al contrario di quel che gli imputava l’artista – senza mancare di rispetto verso critici e altri; le sue parole – come lui stesso fece notare a Morandi – non suonano mai irriverenti.

la fotografia di Francesco Arcangeli fu pubblicata nel numero di «Paragone» luglio-settembre 1976, a lui dedicato in mortem

Vero è che l’«allargamento» del libro sembra oltrepassare la giusta misura, cosicché l’accenno di Longhi a un libro non ancora «fatto» sembrava più riferirsi a un senso di eccesso che non di mancanza. Ma al di là di quel castello che Arcangeli volle costruire – pochi anni dopo già in rovina – rimangono ancora impressi non pochi splendidi passaggi sull’opera, rêveries a occhi aperti: «Essa è già pronta (forse sul filo dei passeggi quotidiani di Morandi, tra le stanze e il giardino, nelle ore più sole, anzi più desolate) a prestare il suo ritmo, in effigie quasi raffaellesco, alla muta accolta di oggetti della Natura morta della raccolta Jesi, capolavoro di imperturbabile, e pur profondamente emozionante atonia ottica e sentimentale. Un triste ma supremo colore di miele, d’oro, di rame, imbeve tutto delicatamente e con raccolta densità, uguagliandosi in un’area visiva così perfetta, così umilmente regale, e quasi altera, da non temere confronto».

Nella preziosa edizione curata da Cesari si può seguire l’intera vicenda attraverso le trentanove lettere. Ne scelgo alcune. La lettera di Longhi, aprile 1962, cui ho già fatto cenno, tentativo ormai tardivo di rimediare a una situazione compromessa. Quindi le lettere che si scambiarono Morandi e Arcangeli nel novembre ’61, dalle quali emerge fino alla radice il tema problematico del rapporto artista-critico, e il ruolo assunto da quest’ultimo: «Le faccio presente – lo ammoniva Morandi – come tutto quanto Lei scriverà si potrà ritenere, e con ragione, come pienamente da me approvato»; affermazione alla quale Arcangeli rispose gentilmente ma fermamente di non rinunciare alle sue idee, «altrimenti la critica non distinguerebbe più niente, standosene, anzi appendendo l’artista in mezzo al cielo, entro un inno indiscriminato».

Da quanto si deduce da una lettera del pittore a Brandi, alla risposta di Arcangeli Morandi non diede alcun peso: aveva deciso con dolore di rifiutare la pubblicazione del libro; tra tante sciocchezze, scrisse, «io sarei il padre dell’Informale». Morandi non avrebbe mai accettato di finire così in mezzo alla scena.

È in un’ultima commovente lettera di Arcangeli a Dina Morandi, a cinque anni dalla morte del pittore, che si sente in pieno il senso della tragedia. Si ammira leggendola la grande umanità dell’amico ed estimatore. Arcangeli volle ricapitolare per intero la vicenda, raccontare della sua sofferenza, del suo dolore, del tentato suicidio, della sua vergogna, anche dei malintesi da lui non cercati, «perché Morandi sapeva tutto di me; della mia passione per l’Informale e per Wols e per Pollock, per Burri, per Morlotti…». Mai venne meno però da parte sua l’amicizia che lo legava all’uomo che sentiva come un padre; e mai avrebbe voluto che tra le due famiglie calasse il silenzio per colpa di una maledetta vicenda. «Perché c’è stata solo sfortuna, amara sfortuna».