Spente le luci sul Colosseo, pagati gli straordinari ai custodi dopo la cagnara del governo «per il grave danno d’immagine» causato alla patria, sei ragazzi hanno deciso di raccontare la loro esperienza lavorativa in uno dei settore strategici del «made in Italy». Alessandra Gabellone, Martina De Montis, Daniela Enas, Bruno Maffei, Annarita Romano e Elena Stillitti hanno scritto una lettera al ministro Dario Franceschini dove raccontano il lavoro dei giovani nel paese della doppia morale: quello della vetrina all’estero (pizza, arte e mandolino) e quella del cinismo verso gli occupati con il lavoro precario, volontario o gratuito.

Laureati magistrali in archivistica e biblioteconomia hanno vinto una borsa nell’ambito del progetto «150 giovani per la Cultura» bandito l’anno scorso dal Miur. Uno simile è stato bandito poco tempo fa e riguarda altri 130 giovani. Il tirocinio è stato svolto fino ad agosto alla Biblioteca nazionale di Firenze. «Siamo stati impiegati non sulla scorta di un percorso formativo (come da noi più volte sollecitato) ma per sopperire alle mancanze dettate dalla ristrettezza di risorse – scrivono i neo-laureati – Tutti i nostri entusiasmi e le nostre proposte sono state frenate da un mantra: “non abbiamo risorse, né personale, né tempo a sufficienza per realizzare nessuna di queste buone iniziative”».

«Tirocinio formativo di orientamento e inserimento al lavoro? Un sistema di autocombustione di energie lavorative che non produce effetti duraturi e stabili, ma che tende alla dilatazione del precariato – continuano – Il problema, Ministro Franceschini, sono le attuali politiche che non solo non prevedono alcun prospettiva di assunzione, ma insistono nel proporre nuove selezioni di tirocinanti (i bandi: 500 giovani per la cultura e il neo pubblicato dei 130) limitate a temporalità ristrette e non prorogabili. Segnali che denotano ormai una scelta consapevole indirizzata alla cristallizzazione della precarietà lavorativa dei giovani laureati. Una vera e propria bancarotta culturale».

Ridotti all’impotenza, e silenziata la loro voglia di fare nel paese che tira a lucido i monumenti a misura dei turisti e non si occupa di chi ci lavora dentro, i ragazzi hanno trovato un’immagine efficace per descrivere l’uso della forza-lavoro specializzata nei beni culturali: «Siamo stati usati da tappabuchi. L’espressione è brutta ma rende l’idea. Abbiamo colmato le carenze del personale che è andato in pensione – racconta Alessandra, 28 anni, portavoce del gruppo – Se mai arriveremo a un posto di lavoro in Italia non avremo il supporto di chi ci ha lavorato per trent’anni. Abbiamo speso sei mesi della nostra vita e oggi non abbiamo prospettive di lavoro. Come prima».

Alla domanda su come siano state impiegate le competenze maturate in un corso di studio umanistico di un certo livello come quello archivistico la risposta è desolante: «Li abbiamo passati nel magazzino a ricollocare i libri richiesti dai lettori». Una mansione esecutiva dei dipendenti, che non ci sono più, svolta da chi dovrebbe invece catalogare i libri. Il 31 agosto, quando i tirocinanti se ne sono andati, all’entrata della biblioteca è stato affisso un cartello. La dirigenza si scusava per la riduzione dell’orario di distribuzione dei libri. Riprenderà quando arriveranno i ragazzi dei servizio civile. Un’altra forma di prestazione lavorativa figurativa usata per nascondere il precariato nello Stato. Sotto il Jobs Act, e il mitologico «contratto a tutele crescenti» il nulla pagato 430 euro al mese per un anno. Quello che farà Alessandra. Nei prossimi mesi svolgerà il servizio civile all’università Roma tre. «Non so cosa andrò a fare in quel progetto – racconta – l’ho scelto per sviluppare progetti finalizzati all’incremento l’utenza. È stata una scelta obbligata perché altrimenti starei a casa».