Ci sono pochi autori che tengono viva e vegeta la cifra irriverente, surreale e graficamente esplosiva che nel nostro paese ha contraddistinto la tappa dello splendore delle riviste a fumetti; la stessa cifra che per anni ha permesso a autrici e autori di affrontare le storture sociali attraverso la satira o stravolgendo la realtà in una rappresentazione allucinata. Tra i più giovani, uno di loro disegna anche sul nostro giornale, ogni venerdì, con la pagina de I sopravvissuti: è il milanese Hurricane. Non è un caso che sia proprio lui ad aver collaborato di recente con la fumettista Francesca Ghermandi, anche lei in passato attiva sulle pagine del nostro quotidiano e di questo inserto, e in precedenza su Frigidaire, Linus, La Repubblica e Internazionale. Nota per i suoi libri pubblicati all’estero sin dai primi anni ’90, Ghermandi torna in libreria dopo molti anni dal suo ultimo romanzo. L’abbiamo incontrata all’Arf! Festival del fumetto di Roma, dove abbiamo parlato di I misteri dell’oceano intergalattico, in libreria per Eris Edizioni, dove era invitata per un talk moderato dal critico Paolo Interdonato.

Mentre ci sediamo in una stanza vetrata e silenziosa per conversare, saluta con la mano un signore che sta entrando al festival: «Quello è uno dei personaggi del mio libro- dice-quello che mi ha portato in barca». Annuisco sorpresa e pensando ad alta voce dico che ha proprio l’aspetto di un velista; ma Francesca replica subito «Macché, è chirurgo maxillofacciale, ogni tanto mi manda immagini delle sue operazioni chirurgiche».

Superata la sorpresa, mi vengono in mente molti dettagli dei volti e personaggi più disparati della matita ghermandesca, non ultimo il piccolo spettatore che nelle recensioni cinematografiche della nostra pagina delle «Sintonie» cambia posizione sulla poltrona del cinema, applaude se il film vale la pena e sbadiglia finendo con la mandibola a terra, se non è bello.

Sei molto interessata dalla fisiognomica?
Molto, ho fatto anche un librino per Strade Bianche per lo storico marchio millelire di Marcello Baraghini, scritto e disegnato a quattro mani con Hurricane. Siamo entrambi amanti della frenologia: si chiama Cragnologia scientifica della moderna editoria ed è una trasposizione di moltissimi personaggi che abbiamo incontrato nel mondo dei libri.

Una carrellata di personaggi dal formato minuscolo degli storici «millelire» ispirata al sofisticato e pazzo mondo dell’editoria. Il graphic novel appena uscito per Eris Edizioni invece è un libro corposo e complesso che arriva a più di dieci anni di distanza da le «Cronache della palude» (Coconino, 2010); quali altri progetti ti hanno impegnato nel frattempo e come approdi a questa nuova storia?
Dopo Cronache della palude c’è stato un periodo di molti cambiamenti, un po’ faticoso, nel quale ho disegnato meno. Poi ho iniziato a lavorare con il Giappone, per la Toyota, nel settore delle pubblicità: un lavoro durissimo ma anche meccanico nel quale mi sono buttata a capofitto. Ho passato un po’ di tempo anche a mettere in ordine le cose di mia madre scomparsa poco prima. Era pittrice, ed era molto disordinata…per questo sono stata impegnata in un lungo lavoro di ripulitura e archviazione.

Ed è stato quello che ispirato l’oceano di oggetti presenti in questa avventura intergalattica?
No, in realtà un editore giapponese che si occupa anche di libri d’artista mi ha proposto di lavorare con lui; io non me la sentivo di affrontare di una storia a fumetti e mi ho avuto l’idea di fare un libro quasi scientifico, come una raccolta di immagini sulle quali montare delle storie; un archivio di immagini, che volevo fosse semplice perché avevo voglia di riprendere a disegnare liberamente.
I giapponesi hanno tempi lunghissimi, quasi eterni-infatti il libro da loro uscirà in novembre. A un certo punto l’editore mi ha proposto di introdurre una trama adatta a un pubblico giovanile. Insieme abbiamo pensato a una storia epica; era il 2015. Quasi contemporaneamente l’amico che hai intravisto prima, che nel libro è Paulie, mi ha invitato a iscrivermi a un corso di vela, in un’isola sarda bellissima, Caprera, in una scuola dove si insegna con molto rigore e serietà. Da quel momento, in mezzo alla disciplina quasi militare, ho ritrovato il mio spirito creativo e gioioso, e ho anche terminato l’ultimo livello di formazione. È stato lì che sono entrata in contatto con un campionario umano improbabile, c’erano soggetti tra i più disparati-dal broker al fricchettone; in più, ho scoperto la dinamica dell’equipaggio. Un altro elemento del libro che viene direttamente da quei giorni sono le teorie o i collegamenti. Andare in barca è come riscoprire la vita, una bellissima metafora di come affrontarla: costituire un equipaggio, superare delle paure, interpretare il vento.

«I misteri dell’oceano intergalattico» è un libro pieno di avventura in effetti…
Assolutamente: c’è il viaggio sulla luna, come nell’Ariosto l’Astolfo dell’Orlando Furioso. Poco fa nel suo intervento, Lorenzo Mattotti insisteva sulla spontaneità e l’improvvisazione. Non mi piace essere pedagogica o raccontare di me, perché si rischia di diventar pesanti. Saper raccontare è in realtà una capacità recitativa e io vorrei raccontare portando dentro il lettore, che non voglio imbrogliare.

Spontaneo è il tuo racconto ma anche la tua linea, che si sforma e si piega al surreale. Quella dell’oceano intergalattico è una realtà distorta che tiene lì il lettore poiché vi accadono vicende e fatti riconducibili alle piccole sfide quotidiane. La storia ha una dimensione epica ma dozzinale.
Sì anche le paure, la fuga, l’idea della perdita della memoria. Il senso di ritrovare gli amici. È tutto molto comune.

Persino perdere la memoria o il cervello, come capita al protagonista del tuo racconto «Barney», è un’esperienza che in senso più o meno metaforico tutti possiamo dire di aver vissuto. Nel tuo libro anche un senso collettivo?
Siamo fatti in modo da dover soffrire e spesso è la creatività che ci aiuta a risolvere i problemi individuali. Quando si riesce ad avere un’idea nuova, quando disegnando si cambia anche solo un segno- e bisogna avere il coraggio di farlo- ecco che succede qualcosa. Quella di Barney, che vittima di un naufragio si sveglia trasformato in un cane, è una storia di perdita, di morte…una trasformazione che veicola un’altra vita, come raccontano anche le religioni. Anche scientificamente la trasformazione ha un senso, il cambiamento del nostro corpo, il verme che diventa crisalide etc. In chiave comica-del resto è un libro anche per ragazzi- tutto questo è nel libro. Le cose in partenza sono in un senso e spesso terminano per essere molto diverse.

La «Guida dell’oceano intergalattico» appare disegnata più volte ed è contenuta nelle pagine gialle in postfazione; il barone VHS-personaggio chiave per lo scioglimento delle avventure di Barney- possiede una grande biblioteca nel suo sommergibile…Il racconto si può inserire nella lunga e feconda tradizione dei libri sui libri?
Il Barone potrebbe essere visto come un alter ego del protagonista, colui che gli restituisce la soluzione per riassemblare la chiavetta che Barney ha perso. Un personaggio eccentrico e particolare che spero di poter riprendere, magari nel prossimo volume. I libri sono presenti sì, ma continuo a voler disegnare per scenette: fin dall’inizio i miei libri sono stati fatti di strisce e storie corte.

La chiavetta stessa è il personaggio centrale di tavole molto diverse…
È l’anima vitale di Barney, un personaggino che ha avuto una gestazione lunghissima. Ho pensato al racconto L’apostata di Jack London, dove c’è questo bambino che lavora e lavora tutta la vita, sempre per mantenere la famiglia. Siamo alla fine dell’800 nelle fabbriche americane e il piccolo protagonista verso la fine del racconto, scappa. È una storia che in un certo senso mi ricorda molto mio padre; aveva fatto la guerra ma non ne parlava volentieri perché vi erano cose più importanti della sofferenza. Questa è l’ispirazione principale della fuga di questa rotella, dove l’assunto è che tutti siamo fatti di quegli elementi. La rotella è una delle composizioni della chiave, un personaggino che è molto didascalico, ma anche molto versatile, come si spiega nell’illustrazione nella guida finale.

Una chiave che ci è però familiare, perché l’avevamo già vista all’inizio…
Esatto, è costruita con gli oggetti che lui rinviene nel naufragio. Ci ho messo tantissimo a disegnare e scrivere il libro, ma mi interessa che abbia profondità e logica, voglio che tutto funzioni perfettamente. Da una parte devo studiare, dall’altra produrre. La griglia regolare di questo capitolo della Città meccanica, dove la chiavetta lavora doveva ricordare la catena di montaggio dove le idee, vengono tramutate in algoritmi, in formule, come all’interno di una grande testa, disegnata in apertura al capitolo. Tutti gli operai lì dentro sono intenti a trasformare le idee, poi questa chiavetta improvvisamente vede una cartolina e tutto cambia, tutto salta; compone una formula che la porta a un’idea diversa, quella della fuga. Lungo la trama, la chiave, che solo Barney può vedere, si rivelerà risolutiva.

Il tuo libro è spassosissimo ma anche pieno di riferimenti e citazioni letterarie notevoli: si può leggere come racconto epico, romanzo picaresco, come un particolare «nostoi», un ritorno a casa che avviene attraverso la ricerca del cervello perduto. E poi ci sono gironi danteschi e teste mozzate con richiami a «Cuore di tenebra» e un nucleo di personaggi centrali che ricorda quello di «Una banda di idioti» di J.K.Toole…
Ulisse è un personaggio che mi piace moltissimo, affronta gli Dei, va contro le regole, ascolta le voci delle sirene. Ho seguito una traccia molto classica in questo senso, antica, mitologica e fatta di archetipi, sempre validi. Il senso del viaggio non cambia. Per i personaggi laterali ho disegnato molte piccole storie che non sono pubblicate ma mi sono servite per crearli. Alcuni erano già apparsi in qualche illustrazione e introducendo un’azione, sono cresciuti, fino a prendere vita sulla pagina. I selvaggi vengono da suggestione da Il signore delle mosche. Ecco, i personaggi laterali nascono da queste costruzioni; quelli principali, invece, sono trasposizioni dei miei amici che appunto ho incontrato in quella circostanza di formazione e pratica velistica.

I tuoi personaggi sono da sempre moltissimi e molto particolareggiati, sei una character designer impareggiabile. Come li costruisci?
Ho disegnato libri diversi tra loro e in ognuno vi è stato un diverso modo di costruire il protagonista e raccontarlo. Nei primi libri mi ispiravo di più a qualche autore che mi piaceva, sia nel tratto che nelle strutture. Nel 2006, per far fronte alla mia sordità ho frequentato un corso del metodo Tomatis, che si basa sull’ascolto della musica di Mozart e dei canti gregoriani, musiche con un’ampia gamma di frequenze. Il suo concetto è che noi parliamo in base a quello che ascoltiamo, motivo per il quale la tua voce se sei sordo si modifica e che sembra esser la causa per cui la lingua di un popolo rispecchia in qualche modo il suo mondo musicale: pensiamo ai russi, che hanno un mondo musicale enorme e una lingua foneticamente vastissima, a differenza di italiani e francesi che vivono un mondo sonoro più limitato. Per i cantanti, per le persone con autismo e per i sordi, è un corso molto efficace. Per quindici giorni si seguono sessioni di cinque ore nelle quali non si deve parlare, né leggere: si può solo disegnare, fare la calza o fare dei puzzle. Io non avevo voglia di disegnare e mi sono messa a fare puzzle. Questa concentrazione ce va allenata, mi ha aiutato a sentire meglio e mi ha influito moltissimo a livello creativo: riuscivo a concentrarmi con un’intensità simile a quella dell’infanzia, a gettarmi sul foglio vuoto e arrivare a una compiutezza. Prima, ero giunta a un tale livello di mestiere che quando mi mettevo a disegnare sapevo già dove sarei andata a parare e invece questa pratica mi ha aperto il cervello. In quel periodo venivo dai disegni per l’Unità, pochi oggetti: telefoni, televisioni, era un lavoro noioso, ma che mi permetteva di fare molte prove. Ho iniziato a fare disegni con la penna biro, moltissimi, pure brutti; ecco grazie al corso, ero riuscita a perdere tutta quella sovrastruttura del mestiere, che per quanto mi avesse portato a fare cose efficaci, non mi emozionava più. In quelle sessioni ho sperimentato una libertà che mi ha portato a creare moltissimi personaggi. Siamo fatti di molte personalità: se comandare a me stessa di disegnare mi ha aveva fatto perdere la motivazione, poi l’ho ritrovata anche grazie a questo percorso.

Stai lavorando in teatro e ti occupi anche altri linguaggi, come la scenografia. Cos’ha il fumetto che lo rende speciale e preferenziale per te?
Torno a parlare dei personaggi: da bambina ho iniziato facendo un po’ come gli attori: nei giochi creavo delle strutture di trama. C’erano i cattivi, mi piaceva interpretarli, dar loro parola e trovarne l’umanità, attraverso la recitazione. Sono figlia di uno scultore e il senso del tridimensionale mi ha influenzata, così come la geometria; mi vien facile capire la materia, ma non mi ho mai voluto lavorare con la tridimensionalità perché il disegno era più facile e più veloce. Con il mio compagno, Gianluigi Toccafondo, abbiamo lavorato insieme ai costumi per l’Opera a Roma. La lettura del poeta Raffaele Baldini e delle sue poesie dialogate ci ha convinto a lavorare a una residenza con il cantiere di Santarcangelo di Romagna, prima con i bambini e poi con gli adulti. Ho inoltre iniziato anche a creare oggetti per un corto stop-motion. Quindi sì: creo oggetti, ma sia che i miei personaggi siano bidimensionali che tridimensionali, nascono dalla loro drammatizzazione, dalla costruzione del mondo che ruota loro attorno. Sono come una coordinatrice: quando arriva una scenetta della quale il personaggio può essere protagonista, nasce una storia. Sono loro, i personaggi, che mi fanno entrare dentro alle storie.