Avvolgente e seduttiva, due aggettivi che sintetizzano il lavoro e la personalità di Annette Messager (Berck-sur-Mer 1943, vive e lavora a Parigi), a cui l’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici dedica la prima personale in Italia (fino al 23 aprile). Una mostra che apre il nuovo ciclo Une, curato da Chiara Parisi, con cui l’istituzione francese conferma la sua vocazione per l’arte contemporanea.
Contrariamente a ciò che suggerisce il titolo, Annette Messager non è Messaggera, ma certamente guida lo spettatore nel suo mondo popolato d’ironia e fantasia, tra animali imbalsamati, guanti di lana con le matite, rotoli di carta igienica colorata, peluche… Oggetti innocui, perfino banali, che svelano una natura molto più complessa e inquieta.
Quei serpenti di plastica, ad esempio, s’intrecciano soffocando la Fontana della Loggia, sotto lo sguardo del Mercurio del Giambologna con il suo oscillante trofeo-scalpo femminile. Pochi metri più in là, nell’Atelier di Balthus, l’artista traccia uteri irriverenti di fronte alla sua Gioconda (Balthutérus): uteri-floreali, graziosi e divertenti, apparentemente fragili eppure così minacciosi.

«Trasformare per me è come giocare. Seriamente, come fanno i bambini. E mi considero una bambina molto antica»: questa frase contiene elementi preziosi per entrare nel suo universo personale e artistico, l’aspetto ludico, la serietà dell’infanzia, la pulsione dinamica insita nei materiali che istintivamente accumula e assembla…
Una vecchia bambina… (ride). Tutti gli artisti giocano con la vita, con il tempo. Presente e passato si mescolano nel futuro. Mario Merz, per esempio, è un vecchio bambino. Anche la capacità di assemblare evoca una fase dell’infanzia in cui si manipolano i materiali.
La vita in sé non ha senso, sappiamo tutti che dobbiamo morire. Cerchiamo quindi di catturare momenti, istanti, eventi che succedono nel quotidiano per metterli insieme e, in qualche modo, dare una forma all’esistenza stessa. E, forse in maniera consolatoria, tranquillizzarci.

Da adolescente il suo carattere ribelle la portò – in opposizione ai suoi genitori che erano atei – ad avere una frequentazione con la chiesa cattolica. Ma non durò a lungo…
Tutti gli adolescenti sono ribelli, altrimenti non sarebbero adolescenti! Nel posto in cui sono nata c’è un’aria così buona (dalla fine del XIX secolo, la cittadina di Berck-sur-Mer, nel Pas de Calais, era nota per le virtù terapeutiche della sua aria ricca di iodio, tanto che vi furono costruiti ospedali per curare, in particolare, malati di tubercolosi ossea, ndr) che molti malati ci vengono per curarsi. Si vedono corpi ovunque, ma c’è anche il mare con le dune, il vento… Ero, forse, più interessata all’aspetto mistico della religione. Ma è vero che vedevo Dio dappertutto. Un atteggiamento – certo – in opposizione ai miei genitori, però era proprio padre a portarmi nelle chiese, nelle cappelle. Mi spiegava l’architettura. Le prime installazioni – le più grandi e belle – si trovano nelle chiese: c’è la pittura, c’è la scultura, c’è la luce del sole che passa attraverso le vetrate. I giovani malati – anche mio padre lo era stato – non parlano mai della malattia, ma sanno che la vita è così breve che potrebbe finire immediatamente. Più degli altri hanno la consapevolezza che non bisogna sprecarne neanche un istante. Questo è l’universo in cui sono cresciuta.

Annette Messager, Histoire des traversine (part.) (ph Manuela De Leonardis)
Histoire des traversine (part.)

Lei ama non buttare nulla, offrendo così una nuova possibilità agli oggetti che si caricano di significati metaforici: vediamo bottoni, pupazzi di stoffa, reti da pesca, animali impagliati… Ma – come accade nel lavoro di Louise Bourgeois – l’elemento ludico deve fare i conti con l’ambiguità degli oggetti stessi, che hanno spesso una doppia natura: rassicuranti e potenzialmente pericolosi. È così?
Nelle case abbiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno per creare, bottoni, pezzi di tessuto, stoffe… oggetti belli, rassicuranti, protettivi, ma che – sì – possono diventare inquietanti. In realtà, più che le bambole, amo i peluche che sono morbidi e hanno la forma di animali. Ma non ci dimentichiamo che Mickey Mouse è un ratto. La casa stessa è rassicurante ma – come ben sappiamo – può essere anche uno dei luoghi più pericolosi. Così pure i tessuti hanno questo potere consolatorio: è sufficiente però semplicemente un’ombra perché si possano creare dei mostri. L’ombra è qualcosa di magico e irreale che può far sognare, ma essere anche molto perturbante.

Nell’utilizzo di materiali ancestralmente riconducibili alla sfera femminile (lavori a maglia, tessuti…) c’è, fin dagli anni Settanta, una consapevole volontà di confrontarsi con l’intimità delle donne, partecipando attivamente alle battaglie femministe e allo scardinamento di tabù quali maternità, giovinezza …
Il tessuto protegge il corpo. Ovunque ci sono tessuti, non è un materiale legato solo al femminile. Anche gli uomini li utilizzano, inoltre i più grandi stilisti sono proprio uomini. In realtà, sono molto più interessata alla flessibilità del tessuto, alla sua versatilità, che non al fatto che possa essere riconducibile all’universo femminile. Anzi, cerco sempre di evitare la categorizzazione – la ghettizzazione – dell’arte al femminile, che non mi appartiene. Ciò che mi interessa è esporre con bravi artisti, che sia uomo o donna poco importa. Sono molto diffidente per quanto riguarda le categorizzazioni!

È vero anche per gli anni Settanta?
A partire da quel decennio mi sono data identità differenti: ho pensato in termini di molteplicità, non di unicità. Sono stata Annette Messager collezionista, donna pratica, Truqueuse. Lavoravo in senso opposto rispetto all’arte concettuale, minimalista che dominava quella epoca. Ogni giorno si faceva la stessa cosa. Io mi sentivo totalmente diversa.

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Il linguaggio fotografico, in particolare, è stato lo strumento per dar voce alla contestazione – come vediamo nel ciclo «Annette Messager, Truqueuse» – sempre con grande ironia e ispirandosi a Man Ray, Jacques-André Boiffard, al surrealismo… Perché l’attenzione ossessiva al corpo umano?
Sono stata influenzata molto anche dal cinema, in particolare di un regista come Alfred Hitchcock. Lì, infatti, ci sono diversi primi piani di frammenti del corpo: occhi, bocche, denti… Anche nella fotografia, zoomando, possiamo ingrandire queste parti del corpo che, finalmente, perdono la loro identità femminile o maschile. Mi sono divertita anche a sovrapporli. In particolare, trovo che ci sia un rapporto stretto tra la fotografia e la tassidermia. Gli animali imbalsamati sono morti, ma sono bloccati in posture che evocano la vita. La fotografia funziona alla stessa maniera perché congela un momento che è finito. Non è come la pittura, che è atemporale.

Grande influenza sul suo lavoro ha avuto il libro «Pinocchio», che ha ispirato il progetto «Casino» per il padiglione della Francia alla Biennale di Venezia del 2005, con cui ha vinto il Leone d’oro. Il celebre burattinoè un simbolo della dualità insita nella natura umana?
Per me Pinocchio è un artista. È stato creato da Geppetto che in origine era scultore, ma aveva dovuto abbandonare la scultura per poter campare facendo il falegname. Uno scultore che, però, riesce a trasformare la materia – il legno – dandogli vita. E questo è qualcosa di prodigioso! Pinocchio non va a scuola, dice le bugie al padre, fa tutte le cose che non si devono fare, ma attraverso questo percorso iniziatico diventa umano.

Christian Boltanski, in occasione di una doppia personale che coinvolgeva entrambi alle Papesse di Siena, ha affermato che lei «gioca con la memoria con tanta più grazia e leggerezza di come fa lui». Forse non ne ama parlare, ma viene spontaneo chiedere quale sia la chiave per relazionarsi a un compagno-artista così «ingombrante»…
Il segreto? È proprio evitare di parlarne!