Tra i film visti al festival di Locarno che si è appena concluso ce ne è uno rimasto fuori dalle cronache ma che nelle scelte di messinscena rappresenta una proposta forte di racconto del nostro tempo, confermando anche la specificità di una cineasta quale Angela Schanelec, raffinata narratrice dei sentimenti contemporanei (tra i suoi film Marseille, 2004, Orly, 2010). Tedesca, attrice teatrale prima di passare alla regia cinematografica, Schanelec ha la capacità di far fluire nel tempo delle sue storie e dei suoi personaggi una dimensione collettiva profonda ma mai pesante, drammatica ma senza colpi a effetto, una cifra che ricorre seppure con declinazioni molto diverse, nelle immagini dei registi di quel «nuovo cinema tedesco» comparso negli anni ’90.

 

 

 

The Dreamed Path, Il cammino sognato, segue i destini di due coppie: la prima, una ragazza tedesca e un ragazzo inglese la incontriamo in Grecia. Siamo nell’84, alla vigilia delle elezioni europee,i due suonano la chitarra in strada per pagarsi le vacanze, intorno altri giovani sventolano la bandiera greca e parlano di democrazia, futuro, di un Paese che è all’origine della cultura europea, le stesse frasi che decenni dopo torneranno per sostenere la resistenza greca contro il ricatto devastatore delle banche d’Europa. I due rientrano quando lui sa che la madre ha avuto un incidente molto grave. Le loro esistenze si dividono per sempre. Trent’anni dopo un’altra coppia con una bimba, lei attrice, lui antropologo si sta separando. I passi dell’uomo incrociano nelle strade della Berlino di oggi, dove tutti loro arrivano, per qualche strano azzardo del caso quelli del ragazzo inglese di tanti anni prima divenuto homeless.

 

 

Si parla d’amore in questo film e di relazioni negate, instabili, rese precarie dai desideri inespressi, frustrati, perduti anch’essi lungo quel «cammino sognat» di cui lasciano appena intuire la natura. E che diventano nel movimento dei personaggi una trama del nostro tempo. La Storia passa attraverso le loro vite, dalla caduta del Muro di Berlino alla Germania di oggi, non ha la forma di un concetto astratto ma è l’esperienza di ciascuno del mondo.
Schanelec sperimenta una narrazione non lineare, che lavora in profondità lasciando aperti i segmenti dell’interpretazione a chi guarda. E insieme provoca un pensiero, un’irrequieteza verso quanto ci circonda.

 

 

Racconta l’Europa Angela Schanelec, spazio comune impossibile – e l’inizio in Grecia non è certo casuale – il grigiore mortifero dell’eurozona che ha ucciso il progetto di sé. E ci dice di un presente che stritola sogni e utopie, che divide nell’ipocrisia di un’«unione».

 

 

Indifferenza, solitudine: la scommessa è, appunto, quella di inventare una dimensione cinematografica «politica» che lavori in sottrazione, che riesca a cogliere le molte variazioni possibili del suo soggetto, ciò che non è semplicemente riconducibile al fatto di cronaca o all’attualità. Una sorta di «condizione umana» tracciata nelle vite fluttuanti dei protagonisti alla continua ricerca di se stessi, di una presenza dentro la storia, personale e collettiva. Dove porta il «cammino sognato» dei ragazzi che scappano saltando il muro dall’est? La Germania della finanza, dei ricatti, del controllo europeo che verrà?

 

Anche Theres attraversa il bosco per arrivare a Berlino insieme al figlio piccolo, che poi crescerà diventando medico. Kenneth, il ragazzo con la chitarra è stato risucchiato dai suoi fantasmi. L’attrice cerca un modo per «intepretare» i suoi perosnaggi, la bimba soccorre il compagno di scuola ferito leccandogli la ferita sul ginocchio. E il corpo, ripreso per frammenti, idelamente bressoniani, appare come il luogo di queste battaglie: un luogo di resistenza, di antagonismo anche nella resa, il segno tangibile del conflitto contemporaneo.