C’è differenza tra il procedimento «radicante» nell’agire artistico ed esistenziale secondo Nicolas Bourriaud e il concetto di «rizoma» messo in circolo da Gilles Deleuze e da Felix Guattari? In tutte e due le situazioni siamo in favore di qualcosa di espansivo, di una germinazione ampia, di una diffusione di idee, comportamenti, ricerche, scoperte. Al posto di una concentrazione su un unico nucleo di pensiero e di iniziativa. Ma probabilmente Bourriaud intende ricordare che si tratta di piantare via via nuove radici pur nel muoversi erratico. Fatto sta che Giorgio Battistelli per il criterio compositivo che ha adottato in Exforma 2 preferisce citare Bourriaud in prima battuta e Deleuze/Guattari in seconda.

 

 

La prima assoluta di Exforma 2 apre all’auditorium Pollini il nuovo interessante concerto dell’Orchestra di Padova e del Veneto diretta da Marco Angius. Nella serata si ascoltano anche il Concerto in sol maggiore per pianoforte e orchestra di Maurice Ravel (solista la giovane star Leonora Armellini) e Musica per archi percussioni e celesta di Béla Bartók. Ma ci sono altri misteri teorici da svelare a proposito di questo brano sinfonico di Battistelli. Lui – lo dice in una conversazione con Angius che precede l’esecuzione in pubblico – vuole evadere da un «ordine compositivo» che esclude, marginalizza, rende estranei materiali e itinerari per conseguire l’obiettivo della forma.

 

 

Però niente eclettismi. Radicamenti in successione, piuttosto. I suoni diventano così «stranieri residenti» per usare la felice espressione coniata da Donatella Di Cesare.
In pratica Exforma 2 è mirabilmente costruito. Ma chi ha scritto questa musica lascia che gli eventi sonori seguano l’uno all’altro «per contagio». Sono fluorescenze. Non si notano modelli né osservanze ai criteri del tonale o non-tonale, ma c’è una serena ospitalità per atmosfere suggestive che la vecchia avanguardia avrebbe censurato. Inizia con preziosi episodi imitativi sognanti, quasi quasi vorremmo dire languidi. Appare un vivace «ponte» e il lavoro torna subito a un clima meditativo. C’è lirismo trasognato e ci sono brevi folate coloristiche.

 

 

Il «fondale» di archi in ostinato non è un richiamo a qualche centralità ma «luce bianca diffusa» come bisbiglia la vicina di posto in sala che – si scoprirà poi – è docente di tecniche della scena all’Università di Padova. Ogni tanto la «luce diffusa» diventa «luce diretta». In sostanza succede che l’ostinato degli archi, di per sé irregolare, cresce d’intensità fino a un’esplosione con frammenti di suono che cadono tutto attorno. Fuochi d’artificio? Perché no. Musica teatrale (Battistelli ha il vizio del teatro fin da piccolo)? Perché no. Ma la sostanza rimane un pacato/caldo sguardo sonoro sul mondo dell’espressione oggi.

 

 

L’Opv nelle mani di Angius, che con i contemporanei va a nozze, serve benissimo Battistelli. E regge brillantemente l’impegno gravoso del Concerto di Ravel, con tutte quelle parti virtuosistiche (e gustosissime) riservate ai fiati. Angius è misurato e razionale ma non può sottrarsi all’imperio dei colori stabilito dall’autore, molto gershwiniano nel primo movimento. La pianista Armellini ha la disinvoltura di chi nasce con lo strumento già tra le mani. Però il suo suono è morbido, forse rivela una propensione cameristica, e qui occorrerebbe essere più «selvaggia».

 

 

Per il capolavoro di Bartók, prototipo di mille avventure contemporanee, il direttore sceglie un taglio «di studio». Certo la sua lettura analitica è affascinante nella «fuga infinita» del primo movimento. Diventa un freno nei due allegri, così carichi ritmicamente.