L’appuntamento con la sezione Satellite alla Mostra del cinema di Pesaro è per gli autori indipendenti che operano a bassissimo budget fuori dai circuiti industriali. Ci viene allora in mente Gregory Markopoulos che programmava le sue proiezioni sul Partenone solo nelle notti di plenilunio. Tra gli indipendenti incontriamo un film speciale, realizzato dal «veterano» Giovanni Cioni (Dal ritorno, Per Ulisse) nato a Bruxelles e solo da pochi anni tornato nel Mugello terra di origine della sua famiglia. Il suo Viaggio a  Montevideo parte dalla Val d’Aosta: da questi altopiani e alpeggi Cioni costruisce un congegno visivo a cui non si sfugge, incantato dalle voci dei Canti Orfici di Dino Campana, accompagnato da metalliche sonorità o da sapienti intrecci musicali che sembrano provenire dall’eco di luoghi lontani. E invece è sempre quello l’orizzonte che ti circonda, l’altrove è qui, ci ripete l’immagine a ogni scena. E poi compare l’elemento umano, l’inaspettata presenza a scombinare il quadro in cui ci siamo accomodati. O il treno, o l’appartamento a Bruxelles appena intravisto da una finestra, con una sterzata inaspettata del racconto. «Ogni valle è un ritorno , di una vita che avrei vissuto»: Montevideo risulta essere piuttosto la valle che immaginata nell’infanzia. Dell’inquieto mare notturno c’è solo la continua evocazione e come solo il cinema alto sa fare, se ne indovina la presenza al di là dei picchi montuosi. Ma non c’è il tempo di immaginare dune, si passa ad altro con un ritmo sotterraneo inquieto e segreto, mentre si susseguono i versi del poeta.

L’uso della parola sull’immagine è una scelta rischiosa.

Mi piace il testo scritto nel senso che crea distanza prima dell’immagine. Il testo per me è qualcosa che crea silenzio. Non mi piaceva che quelle parole fossero recitate con voci impostate che generano troppa tensione. Nei Canti Orfici c’è qualcosa che possiamo creare noi. Già prima di fare un laboratorio coi ragazzi in Val d’Aosta avevo pensato a un film su Dino Campana. Abbiamo lavorato su questo materiale mentre io intanto scattavo delle foto. Questo determina anche la struttura in cinque frammenti del film. Avrei potuto continuare, in qualche modo è un film che rimane aperto.

Chi è il personaggio che compare improvvisamente come a stropicciare i versi (sulle variazioni di «partire è un po’ morire») con un effetto ironico?

È il cantante di un gruppo punk, Avatar; è stato un incontro casuale, ho poi scoperto che anche lui ha vissuto partenze per luoghi lontani, ha fondato una compagnia di teatro e ha portato in scena Dino Campana. É sua la voce che «dice» i versi. Ho dovuto aggiungere in testa che il film è ispirato a Campana quando mi hanno invitato al festival Cinéma du Réel perché è un autore sconosciuto in Francia.

23vis2piccccccccccccc

Il film è costruito con precisione quasi scientifica, soprattutto per quanto riguarda l’inserimento di parole e musica. 

Preparo una mappa, senza disegni, ma con dei riferimenti, dall’alto verso il basso, in modo da creare elementi non narrativi. Questo mi permette di uscire dalla  scansione logica ottenendo associazioni dall’effetto ludico. L’ultima sonata di Beethoven comincia con una dissonanza, tutto quel mondo sonoro comincia con una dissonanza.

Qual era la tua nota dissonante?

Quando tra le immagini delle valli ho messo la casa di Bruxelles in bianco e nero e della Nuova Caledonia, o ancora la telefonata a mio padre dove si parla della partenza che è sempre un ritorno. Qui trovavo una risposta concreta che rimanda al vissuto.

Nella vita reale viaggi o resti tra i monti?

Ho scritto tutto nella valle, mi permetteva di raccontare i luoghi dove vivo, il rapporto con le persone lontane. Sono ossessionato dal tempo reale, dal fatto di essere chiuso in un posto e mentre qualcosa succede nel mondo. Il concetto di tempo reale mi angoscia come quando guardi le stelle e sai che non ci sono più. Quando sei in montagna il mondo è intorno a te, un mondo chiuso che può espandersi. Nella realtà non viaggio tanto e se lo faccio preferisco i treni regionali.