Curiosa e degna d’interesse l’attrazione che anche tra le generazioni teatrali più giovani, emerge per la storia, e la memoria, di chi li ha preceduti. Incuriosisce e anche rassicura, rispetto a chi, con giovane voce, rifiuta non solo la propria tradizione, ma anche la sua sola conoscenza, che sarebbe quanto meno doverosa per poterla in modo originale superare. Ora tre attori di teatro contemporaneo ci conducono invece in quello che fu il mondo del «grand’attore», una elaborazione molto italiana cresciuta nell’ottocento, ed entrata in crisi nel periodo tra le due guerre, per essere poi spazzata via definitivamente dall’avvento del teatro di regia nella seconda metà del novecento.
Qualcuno ha avuto la fortuna, ormai lontana, di «ammirare» tecniche e modalità dell’ultima famiglia teatrale, la molto gloriosa D’Origlia-Palmi che si esibì a Roma, in teatri parrocchiali ancora lungo gli anni Sessanta e Settanta. Non a caso, spettatori abituali dei loro ultimi anni furono grandi nomi del teatro successivo, da Paolo Poli a Carmelo Bene.
Il percorso scelto da David Batignani, Simone Faloppa e Paola Tintinelli, passa invece attraverso le vestigia ancora viventi dell’arte antica del palcoscenico. Hanno visitato infatti i tre istituti per artisti anziani esistenti in Italia (a Milano, Bologna, Scandicci) e ne hanno tratto un proprio percorso scenico, mostrato ora all’Argot Studio di Roma: Tu, eri me.
Quasi alla ricerca di un’autobiografia artistica che in quattro movimenti mostra debolezze personali e grandezza attoriale di una antica signora della scena che due compunti visitatori vanno a trovare. Il crinale è delicato, a dir troppo si rischia facilmente di cadere, la signora ha nome Lilla (ma è più un omaggio che una identificazione della grande e temibile Brignone). Lo spettacolo funziona come apertura di una possibilità d’indagine, di un confronto anche crudo con qualcosa che non può essere la misura del domani ma che è sacrosanto conoscere. Il ritratto dell’artista da vecchio non ha ovviamente il glamour e la ricchezza di mezzi del Quartet cinematografico di Dustin Hoffman, ma una serietà d’intenti e una cura così amorevole da far sperare in un suo positivo sviluppo.