Un bianco abbagliante domina per gran parte del tempo la scena del Don Giovanni andato in scena sabato scorso nella sua terza replica al festival di Salisburgo per la regia di Romeo Castellucci e la direzione di Teodor Courrentzis. Lo spettacolo, progettato per il festival dello scorso anno e posposto per la pandemia, propone al pubblico un misterioso, enigmatico tragitto che conduce il protagonista verso l’autodistruzione, una caduta vorticosa generata dall’ossessione di conquista, dalla dipendenza narcisistica che impedisce a Don Giovanni ogni piacere e gioia. Sul podio Teodor Currentzis dirige il capolavoro mozartiano a quasi cento anni dalla prima produzione del festival, allora affidata a Richard Strauss. Il direttore greco precisa ulteriormente la lettura estroversa e incandescente già proposta con la sua compagine musicaAeterna in altre prove, anche consegnate al disco. Convince la varietà dell’accompagnamento, la campitura delle scene d’assieme e l’uso degli abbellimenti – qualche cadenza però avrebbe figurato meglio in un’opera di Bellini – anche se il gioco di contrasti fra strette e dilatazioni dei tempi a lungo andare tende a irrigidirsi in manierismo, come non sempre contribuisce alla messa a fuoco delle pagine più drammatiche l’imposizione drastica della riduzione di vibrato nel canto.

LA CONSONANZA di intenti reciprocamente riconosciuta fra podio e regia sembra anche aver incoraggiato l’abuso di lunghe, insistite pause nei recitativi, assai ben curati; così si appesantisce il fluire drammatico allungando immotivatamente la durata dell’opera, alla quale non offrono poi giovamento le brevi interpolazioni musicali che vivificavano invece il precedente spettacolo di Castellucci sul Requiem di Mozart. La regia fatica infatti a confrontarsi con un materiale solo in parte malleabile, una drammaturgia musicale e un libretto magnificamente funzionanti, poco permeabili a trasformazioni radicali, specie se strutturate come in questo caso attraverso una successione di tableaux fusi uno nell’altro. Scene tanto spesso esteticamente fascinose e poeticamente dense quanto intrinsecamente prive di attinenza con la vicenda, tanto da scadere a tratti in motivo decorativo. In un completo niveo come il suo doppio Leporello – Vito Priante assai simile per timbro chiaro, canto e fisionomia scattante al ‘padrone’ Davide Luciano – il protagonista condivide il bianco con tutti gli altri uomini del dramma, che di giocoso in questa regia ha poco o nulla, tolto qualche barlume sardonico, come la corsa dell’atterrito Don Giovanni inseguito con passo da automa dal figlioletto di Donna Elvira, la pugnace, espansiva Federica Lombardi. Il bianco tinge dunque anche i costumi ostentatamente ridicoli di Don Ottavio, didascalicamente caratterizzato quale rappresentante, insieme a Donna Anna, degli stilemi dell’opera seria. Michael Spyres sostiene però meglio della Donna Anna di Nadezhda Pavlova – prodiga di saette d’intonazione perfettibile – l’alleggerimento vocale imposto dal podio. A Donna Anna fanno capo le scene ispirate al gusto già romantico di Blake, Fuessli e del Sogno shakespeariane.

A QUESTI MOMENTI prendono parte attivamente centocinquanta donne di Salisburgo, scelta vincente del regista nella relazione col pubblico locale. I loro corpi rispondono con le infinite variazioni modellate dall’età all’esibita, piccante carnalità di Zerlina, Anna Lucia Richter; oppure si tramutano in lapidi nere nella scena del cimitero, la più riuscita dell’allestimento insieme al finale. Per il resto Castellucci ci sfida a dipanare una snervante teoria di quadri fitti di enigmi e simboli, che includono tra l’altro il capovolgimento di un crocefisso e di un famoso ritratto di Petrus Christus, la caduta dall’alto di un’automobile, di una sedia rotelle e di un pianoforte, la furia rottamatrice del finale del primo atto, oltre alla comparsa di un serraglio di animali vivi o in effigie, dalla capra al ratto. Dopo qualche percepibile incertezza il pubblico si è lasciato comunque conquistare dalle esoteriche cogitazioni della regia o forse una volta di più dalla sublime perfezione dell’opera di Mozart, tributando a tutti un successo senza riserve.