June Medical Services v. Russo è il nome di un caso presentato mercoledì scorso di fronte alla Corte Suprema, e il primo relativo all’aborto che la Corte esaminerà nella sua attuale formazione, completa di due giudici nominati da Trump, Brett Kavanaugh e Neil Gorsuch – che come il presidente sono aperti simpatizzanti della causa antiabortista. A seconda di quale sarà la loro decisione, in Louisiana potrebbe rimanere una sola clinica autorizzata a praticare aborti, invece delle tre attuali, che comunque non è molto meglio. La causa è infatti fondata su una legge di quello stato che impone alle cliniche la garanzia che le pazienti sottoposte ad un aborto possano essere ammesse a un ospedale nelle vicinanze immediate della clinica.

Come decine di analoghe restrizioni e tagli di fondi, conquistati centimetro per centimetro in vari stati nel corso di anni, l’obbiettivo è di rendere l’accesso all’aborto cosi difficile da risultare impossibile, ma senza invalidare Roe v. Wade, la legge federale che lo ha legalizzato, nel 1973, e che è tuttora sostenuta dalla maggioranza degli americani. Dalla strategia di sopra, è nata «l’odissea burocratica» (la definizione è della regista) a cui parecchie donne devono sottoporsi per avere un aborto, e che è il punto di partenza dell’ultimo film di Eliza Hittman, Never Rarely Sometimes Always, premio speciale per il neorealismo a Sundance 2020 e, più recentemente, Orso d’argento al festival di Berlino.

Newyorkese anche nel suo universo poetico, già sceneggiatrice/regista di It Felt Like Love (2013) e Beach Rats (2017) Hittman è un’autrice dalla scrittura rarefatta, che lascia scaturire la storia spontaneamente, tra i silenzi, dai volti dei personaggi e dai luoghi che attraversano. Nel suo cinema limpido e preciso, Never Rarely Sometimes Always è un road movie che dà l’impressione di svolgersi in tempo reale. Autumn Callaghan (Sidney Flanigan) ha diciassette anni e, nella zona rurale della Pennsylvania dove vive, non può ottenere legalmente un aborto senza il consenso dei genitori. Preoccupata della loro reazione, chiede aiuto a sua cugina Skylar (Talia Ryder), cassiera in una drogheria, e insieme partono alla volta di New York dove la legge è più permissiva. Hittman scavalca la questione della «scelta», su cui si avvitano la maggioranza dei film americani sull’aborto, non perché non sia importante, ma perché la sua storia è un’altra: il bagaglio essenziale fatto in fretta, una mazzetta di contanti infilata nella tasca dello zainetto, le due ragazze scambiano tra loro solo le parole necessarie – la loro è una solidarietà che non ha bisogno di spiegazioni.

A bordo del pullman diretto a nord, il film gioca dolcemente sul contrasto delle loro personalità -più intraprendente, socievole, Skyler, mentre Autumn, luminosamente malinconica, è più contemplativa. Quando arrivano alla stazione di Port Authority – una specie di purgatorio semideserto – è già buio, e devono trovare il modo di passare la notte. I tempi morti e le difficoltà contingenti (dove dormire, cosa mangiare, come trovare qualche altro soldo, che storia raccontare ai genitori che le credono una a casa dell’altra) si intrecciano naturalmente e senza impennate drammatiche a quelle della burocrazia (anche a New York abortire può tradursi in un viaggio a molte tappe). Con la stessa naturalezza e discrezione, Hittman accenna qualche dettaglio nel passato di Autumn, senza accentuarlo. Ed è quel suo modo impercettibile di spostare il baricentro del discorso che rende questo film così interessante anche politicamente parlando. In Usa è stato acquistato dalla Focus e arriverà in sala il 13 marzo.

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