Arriva alle otto, ogni giovedì mattina. Parcheggia quello che sembra soltanto un vecchio motorino a un passo dalla statua di Giordano Bruno e dai banchi del Campo, Campo de’ Fiori, Roma. Armeggia per qualche minuto intorno al motorino, poi, prima di farla partire, dà un’ultima occhiata alla mola rotonda. Ci appoggia la lama di un coltello, e uno stridore acuto si unisce ai richiami dei fruttaroli, dei pizzicagnoli, dei macellari. Pochi giri velocissimi restituiscono al coltello tutta la sua affilatura. La gente, non solo del quartiere, sa di quell’appuntamento del giovedì e si mette in fila per affidare all’arrotino del Campo forbici e lame di cucina. È così da tredici anni. Ma prima del motorino c’era una bicicletta, e accanto alla bicicletta un signore diventato troppo vecchio per continuare il mestiere. La bicicletta, il mestiere.

Fino agli anni ’60 del secolo passato, gli artigiani ambulanti erano appuntamento atteso nei quartieri delle città, nelle piazze dei paesi, tra le poche case di una frazione. Se avete superato i secondi ‘anta’, ne avrete memoria per esperienza diretta o dai racconti di genitori e nonni. Se memoria vi manca, se volete che insieme a voi, figli e nipoti ne facciano archivio prezioso, programmate un viaggio a Fabriano, Marche. Città della carta e di un museo intitolato ai mestieri in bicicletta.
Nelle campagne di Fabriano, Luciano Pellegrini lo conoscevano tutti. Se ne andava in giro su due ruote a raccogliere stracci, quando avesse cominciato forse nessuno lo sapeva. Una volta meritatamente a riposo, il lavoro di raccogliere si era trasformato, chissà quando, nella passione di collezionare.

Auto d’epoca, lattine di bibite e birre, poi, una trentina di anni fa, biciclette d’altri tempi attrezzate per esercitare, oggi qui, domani là, le attività più diverse. Luciano ne scova una quindicina nei dintorni, avvolte dal buio e dalla polvere delle cantine, «ferrivecchi» secondo chi le ha ereditate o se l’è ritrovate senza sapere bene cosa farne. Giancarlo Magalli, che in una trasmissione Rai si occupa dei fatti altrui, viene a sapere della collezione. Pellegrini finisce sul piccolo schermo a raccontare la sua storia, piovono telefonate. C’è chi la bicicletta da lavoro la regala, o chi, meno generosamente, la mette in vendita. Comunque sia, il numero dei reperti aumenta. Ma non per questo la caccia si ferma: altri scantinati, mercatini di bric à brac, fiere… Oggi i pezzi, esposti nel Museo dei mestieri in bicicletta ospitato all’interno della Nuova Galleria delle Arti – nel centro storico di Fabriano – sono ottantadue (per orari, costo dei biglietti e altre informazioni, 0732/ 251810, fabriano@uisp.it, mestieriinbicicletta.it).   

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Armando Stopponi, consigliere della locale Uisp (Unione Italiana Sport per tutti), che grazie a un gruppo di volontari gestisce il museo, indossa i panni del cicerone: «Le biciclette risalgono a un periodo che va dagli anni ’20 ai ‘60 del Novecento e provengono da tutta Italia, Sardegna esclusa. La bicicletta dell’accalappiacani, ad esempio, apparteneva al comune di Faenza. Allora era compito dei netturbini catturare i cani randagi, lo facevano il pomeriggio, dopo aver spazzato le strade. Al di là dello stupore e del divertimento che suscitano nel visitatore, i pezzi raccontano di un Paese povero, in cui era difficile campare».

Un Paese, soprattutto nelle zone rurali, senza una scuola, un medico, un barbiere. E allora, a giorni fissi oppure all’improvviso, una bicicletta, scampanellando, annunciava l’arrivo di un negozio o di un servizio ambulanti. Il fotografo scendeva di sella, montava sul cavalletto il suo mastodontico apparecchio e metteva davanti all’obbiettivo uomini, donne, bambini. Un «fermo e sorrida» per la carta d’identità, un altro per un anniversario, feste e matrimoni su prenotazione. Se il nodo della cravatta era storto o i capelli un po’fuori posto, il fotografo diventava costumista e acconciatore.

Cartella agganciata al manubrio, cassetta attrezzata con penne e calamai, lo scrivano si incaricava di far scorrere l’inchiostro al posto di chi non conosceva l’alfabeto: nel 1900 il 56% degli italiani, vent’anni dopo il 35, alla vigilia della seconda guerra mondiale il 14. Cifre che aumentavano lontano dalle città. Ricorda Stopponi: «A sei, sette anni, si era già nei campi. I prescelti andavano a studiare da prete o da suora». Scorciatoia verso una vita di fatica almeno fisicamente più lieve. L’Italia della povertà non buttava via nulla, e al cocciaro affidava il compito di rimettere insieme i pezzi di vasi, piatti tegami. Ci si ammalava di lavoro e di stenti nelle campagne, di lavoro e di stenti si sarebbe morti senza il medico condotto, dalla bicicletta al capezzale. Dopo la visita le medicine, le istruzioni per renderle efficaci, qualche parola di incoraggiamento, le raccomandazioni, prima di pedalare verso un’altra casa.            

Teatro Burattini

Quand’era stagione, ecco il norcino e il materassaio; quando i soldi non bastavano per allevare mucche e animali da cortile, passavano il lattaio e il pollarolo; quando gli orologi si fermavano e le chiome diventano troppo lunghe, a rimettere in marcia le lancette e ad accorciare i capelli ci pensavano l’orologiaio e il barbiere, tutti intorno a contemplarne l’opera. Poi, ed erano i momenti belli, il campanello segnalava l’arrivo del cinema che faceva sognare l’amore e le avventure, del burattinaio e del giocattolaio incantatori di bambini, del distillatore di liquori da mandar giù durante una partita a carte, del gelataio che vendeva qualche minuto di dolcezza. Seimila biglietti d’ingresso staccati ogni anno, rimarca orgoglioso Stopponi. Cui bisogna aggiungere i piccoli, che il biglietto non lo pagano. E cita, all’uscita, gli anziani con gli occhi resi lucidi dai ricordi, gli sguardi increduli dei giovani, gli stranieri stupiti dalla scoperta dell’ennesima storia nascosta in un angolo minuscolo del Bel Paese. Tanti mestieri, dalla bicicletta sono approdati a una bottega, e anche lì stentano a campare. Tanti, troppi, sono scomparsi per sempre. Dice Stopponi: «Conoscere il passato ci aiuta a vivere il presente». Impossibile, davvero, contraddirlo.