Nella fotografia c’è una poetica esistenziale, che pone l’essere umano al centro del suo sguardo. Questa centralità, reinventa lo stupore dell’infanzia, la meraviglia dell’osservare questo film a ciclo continuo che è il vivente. Chi fotografa, quando interpreta al meglio questa visione, si fa simile alle montagne o agli scogli. Si fa simile a chi osserva senza giudizio l’affanno umano, il segno che questi affanni incidono nel reale.

C’È DISTANZA nel posizionare un obiettivo, ma l’amore, con il quale un frammento di reale viene ricoperto d’attenzione, ribalta questa distanza e la fa diventare occasione per tratteggiare il profilo di un destino comune, nessuno, niente escluso.

Valerio Corzani si muove tra tanti piani, tra tante città, tra tante forme di espressione. Nel marzo del 2020, all’esordio della pandemia, comincia a esporre i suoi lavori online per l’Istituto italiano di cultura di Monaco di Baviera.
Il lavoro si chiama Geometria dell’incanto. Frammenti di bellezza italiana ed è stato pubblicato, ora, per la Treccani (pp.136, euro 29,90, con testi di Franco Farinelli e Massimo Zamboni). Qui, dentro le pagine sontuose di questo volume, sembra si voglia raccogliere e ripensare l’esperienza d’aver dovuto inventare modi e mondi per portare l’altrove nelle vite impaurite dalla pandemia. L’idea ripercorsa è una idea che non stinge mai: immettere bellezza contro l’isolamento che inaridisce e disorienta.

Una strategia efficace che Corzani indaga in lungo e in largo, viaggiando (sono suoi molti reportage nella Lonely Planet, la bibbia dei viandanti), fotografando, (molte le sue mostre e molti gli scatti presenti in importanti cataloghi), facendo musica (da Teresa De Sio a Luigi Cinque).

NELLA PUBBLICAZIONE Treccani, l’autore si rimodula, diventando libro di fotografie corredate da frammenti didascalici. Sembra davvero una reinvenzione del discorso amoroso di Barthes: in una suggestione da sommelier, Corzani allega alle visioni anche le tracce musicali, inventandosi un modo di andare a tante dimensioni, che sembrano far lievitare il libro tra le mani.

Ogni scatto è un’avventura, come fu per Wim Venders quando «Una volta» era la storia di una foto, di un pezzo d’esistente trattenuto fra le dita. Anche qui sono finestre strappate alla dimenticanza dell’impoetico. «Una parete che si fa lavagna» (siamo a Matera), l’arco di ferro che incornicia la malinconia di un silos (siamo a Trieste), la fantastica storia di Nunzio Sulprizio, «ll santo della normalità», operaio morto nell’ottocento a soli 19 anni, canonizzato appena due anni fa e subito «apparso» in un vicolo di Napoli, lì dove protettori sono lari a portata di mano.

L’irruzione del perturbante nella composizione disvelata alla fondazione Mast di Bologna, proprio come ce lo dice Freud: dentro un’opera di Anish Kapoor il cielo si riflette su una superficie cangiante, solo un traliccio della luce a separare gli orizzonti. Nessun punto cardinale resiste. Il nostro posizionamento è allo sbaraglio. Una mano che, su un muro scrostato, scrive fil rouge, accostando la parola al tragitto del corrimano, dicendo nella composizione il senso di ogni tessitura.

«DUNQUE, cosa è paesaggio? E Questi uomini che lo abitano e lo modificano senza in realtà modificarlo mai, come potremmo definirli? Uomini geografici. Vivono come in una fotografia, in un movimento ostinato di ripetizioni, fatto di punti che descrivono circonferenze, ritorni, conferme». Lo scrive Corzani, ma sembra che a parlare sia un albero canterino.