Il pittore, diciamocelo, è un po’ noioso; ma la mostra è molto bella. Pier Francesco Foschi (1502-’67) pittore fiorentino, aperta fino al 10 marzo alla Galleria dell’Accademia, è la versione fiorentina di una rassegna, un po’ più piccola e non pienamente monografica, tenutasi al Georgia Museum of Art ad Athens (Georgia) per iniziativa di Nelda Damiano. Percorrendo la lunga galleria in cui è allestita all’Accademia la mostra, sorprende infatti il numero elevato di dipinti provenienti dagli Stati Uniti, e anzi dai suoi angoli più sperduti, da Salt Lake City a Jacksonville, fino a Indianapolis. Da quest’ultima, ad esempio, arriva un pannello di predella che è stato riunito alle altre parti della pala di San Benedetto a Settimo (Pisa), a cui si riferisce il disegno preparatorio di Oxford, anch’esso presente in mostra: questo per dire di un’operazione scientificamente serissima, e filologicamente impeccabile.

La ricostruzione della personalità e del catalogo di Foschi è stata il frutto delle ricerche novecentesche, poiché Vasari, sempre così informato, gli riservò scarsissima attenzione, e questo nonostante lo menzionasse già nel 1550 tra gli allievi di Andrea del Sarto. Al tempo della pubblicazione della seconda edizione delle Vite (1568), Foschi era appena morto, e nel corso della sua carriera aveva licenziato almeno dieci pale d’altare, di cui tre per la centrale e importante Santo Spirito a Firenze, e aveva da poco lavorato, proprio sotto il coordinamento generale di Vasari, agli apparati effimeri per il matrimonio di Francesco I con Giovanna d’Austria: ma tutto questo non bastò a guadagnargli un medaglione biografico in quel monumento della storia dell’arte.

Come giustamente argomentato nel bel catalogo (Silvana Editoriale), che grazie al regesto completo delle opere del pittore costituisce anche un catalogo ragionato, Vasari non perdonò a Foschi la sua iperfiorentinità, ovvero il profondo legame con Andrea del Sarto, il mancato aggiornamento sulla Maniera romana di Raffaello e Michelangelo, e anche la produzione di natura devozionale. Il giudizio critico vasariano era ideologicamente orientato, ma in qualche misura può essere ancora sottoscritto: soprattutto all’altezza cronologica degli anni cinquanta e sessanta, quando a Firenze lavorano pittori più innovativi come Marco da Faenza, Jacopo Zucchi o Giovanni Stradano (protagonista proprio ora di un’altra mostra in Palazzo Vecchio, utile per operare un confronto fra maniere così diverse), Foschi doveva sembrare il sopravvissuto di un’altra era.

Oggi magari, osservandolo da un altro punto di vista, e apprezzandone l’impermeabilità al Manierismo michelangiolesco o vasariano, può anche apparire come un pittore proiettato verso il futuro, l’anello di congiunzione tra Andrea del Sarto e la Counter Maniera di Santi di Tito: un esempio perfetto, cioè, del rapporto pittura e Controriforma. E in questo senso basti citare l’Andata al Calvario Pallavicini (1550 circa), finalmente libera dal confronto col maestro: un’inedita rielaborazione di soluzioni nordiche, ma non certo quelle alla Stradano, quanto piuttosto alla Memling (magari mediate da Ghirlandaio), e cioè sempre in chiave di pittura devota.

Ma procediamo con ordine. L’esordio era stato promettente: la bella pala con Madonna e santi da San Barnaba (1523-’26) non tradisce solo il rapporto con Andrea del Sarto, ma anche quello con il giovane Pontormo: è opera tradizionale ma non certo attardata per quegli anni. Molto presto, però, dopo la morte nel 1531 del «pittore senza errori», Foschi sceglie di divenire ‘solo’ il depositario dell’eredità sartesca, replicando Madonne col Bambino di Andrea, ma anche una delle sue invenzioni più celebri, il Sacrificio di Isacco, e la mostra presenta un accostamento eccezionale tra la prima versione di quel soggetto del maestro, la tavola incompiuta proveniente da Cleveland, con la copia dell’allievo oggi alla Villa del Poggio Imperiale: la durezza di quest’ultima, nel confronto, è innegabile.

Del 1542-45 è la notevole Resurrezione di Santo Spirito, un’altra pala eccezionalmente prestata, come l’altra di San Barnaba, per la mostra dell’Accademia, un tour de force per Foschi, che diede fondo a tutte le sue conoscenze, anche anatomiche, per raffigurare i soldati romani su piani sfalsati, e in posizioni diverse: notevole quello addormentato in primo piano a destra, con le mani morbidamente abbandonate. Uno urla anche, memore di una celebre invenzione di Michelangelo, ma con poca convinzione, a dire il vero. Certo il Salviati della Sala delle Udienze di Palazzo Vecchio, a quella stessa altezza cronologica, era un’altra cosa, per spigliatezza narrativa, ma Foschi cercava di tenersi al passo. Poi sarebbero prevalse altre istanze, prima di tutto neosavonaroliane (come aveva ipotizzato fin dal 1967 Antonio Pinelli), anche perché il padre di Foschi, anch’egli pittore, era stato alla fine del Quattrocento un piagnone (e questa è invece acquisizione più recente di Simone Giordani). E così il neosartismo di Foschi, ripiegato su sé stesso, nel 1562 dà vita (si fa per dire) all’involuto Cristo in pietà impietosamente (sic) accostato a un modello di Andrea del 1525.

I ritratti costituiscono un capitolo a sé. A Firenze ne sono presenti una decina, spesso davvero notevoli, e si capisce bene come si trattasse di un genere perfettamente nelle corde del maestro. In quello di Bartolomeo Compagni si apprezza la resa dei singoli oggetti e la consueta severità di Foschi, che però si produsse, forzando un po’ sé stesso, anche in un bracciolo antropomorfo che richiama alla mente le invenzioni capricciose di Salviati; si tratta di un particolare che quasi stona in quel dipinto, un po’ come quell’uomo urlante nella Resurrezione. Il Foschi migliore era quello dalla «maniera chiara, composta e pressoché disadorna» (Giordani), poco amata da Vasari, forse, ma apprezzata da buona parte della committenza fiorentina di allora.