Se è vero che un poeta fa i conti innanzitutto con la propria contemporaneità, è anche vero che le risorse espressive cui si affida sono spesso cercate nella distanza: di tempo, di spazio, di forme. Il luogo in cui più si esercita e vive creativamente questa tensione dei significanti è la traduzione. Non serve ribadire l’importanza che le traduzioni hanno avuto per la nascita e lo sviluppo di intere letterature e per la maturazione di lingue e culture lungo l’arco della Storia. Del resto, non è l’immagine dell’arco quella che definisce meglio la pratica della traduzione nel tempo: l’arco è fatto di elementi contigui, incastrati uno dopo l’altro in un ordine statico.
L’incontro dei poeti con le opere di un altro tempo e le parole di un’altra lingua dipende invece da movimenti e spinte che procedono lungo traiettorie oblique, mettendo in contatto punti lontani e rotte inverse. Così, ad esempio, dalla contemporaneità si può attingere la classicità per restituirne il senso, o per appropriarsene. Raggiungere l’antico dal Novecento: è stato questo l’obiettivo che molti poeti-traduttori del secolo scorso (e del presente) si sono posti, come illustra ora il volume che esce nella collana «Ricerche» del Centro studi «La permanenza del Classico»: «Un compito infinito» Testi classici e traduzioni d’autore nel Novecento italiano, a cura di Federico Condello e Andrea Rodighiero, (Bononia University Press, pp. 328, euro 28,00).
«Un compito infinito»: l’espressione proviene da uno scritto di Raboni («L’arte della dissonanza»), contenuto nel «Meridiano» delle Opere di Baudelaire. Il compito di un traduttore – osserva Raboni – è «un compito infinito» che è possibile immaginare concluso solo in un punto «ipotetico e posto al di là del tempo (…) nel quale sono destinate a incontrarsi due rette parallele». Prendono spunto da queste frasi di Raboni le «considerazioni introduttive» di Condello e Rodighiero, classicisti che da tempo si occupano di traduzione, del dialogo tra autori antichi e novecenteschi, dell’applicazione ai testi contemporanei di principi e metodi analitici sperimentati dalla filologia classica (penso alla recente inchiesta di Condello sul Diario postumo pseudo-montaliano, condotta con la sensibilità, particolarmente acuta nel classicista, verso i problemi della trasmissione del testo). Al volume hanno partecipato, compresi i curatori, quindici studiosi, autori di altrettanti contributi che danno nel complesso un quadro di grande ricchezza e varietà. Che poeti e scrittori del Novecento avessero dato versioni di opere antiche era più che noto; ma che le frequentazioni del classico da parte dei contemporanei fossero così numerose, intense e differenziate nelle scelte e negli esiti poteva non risultare altrettanto percepibile. Il libro ha perciò tra i suoi meriti quello di dare contorni più netti e colori più vivi a uno spicchio del panorama novecentesco guardato forse, fin qui, un po’ distrattamente. (Ed è un merito grande, ora che il Ventesimo secolo, tra i più lunghi e vari della letteratura italiana, si allontana e rischia di essere frainteso nei bilanci affrettati di chi conosce e capisce poco del Novecento).
Non solo di primizie o riscoperte è nutrito il volume; motivo d’interesse è infatti anche il rinnovamento di prospettiva su opere e traduzioni già note e studiate, come il Satyricon di Sanguineti (di cui scrive qui Agnese Semprini), ricordato anche per la Festa aristofanesca (cui è dedicato il saggio di Andrea Capra). Tra gli autori di cui si dà conto ci sono Pasolini traduttore dell’Eneide (Giulia Bernardelli) e dell’Antigone (Alessandro Iannucci), Zanzotto traduttore ancora dell’Eneide (Massimo Natale), Raboni traduttore di Antigone (Maria Pia Pattoni), Emilio Isgrò (alla sua Medea ‘scancellata’ è dedicato il saggio di Martina Treu), Sbarbaro traduttore del Prometeo incatenato (Paolo Zoboli); Giovanna Bemporad traduttrice dell’Odissea (Rodighiero). Di Pavese, e dei possibili echi della sua opera nella fortunata traduzione einaudiana dell’Iliade di Rosa Calzecchi Onesti, parla Annalisa Neri. Il nome di Quasimodo ricorre nei saggi di Condello («Cinquant’anni dopo Quasimodo: lirici greci e poeti italiani contemporanei (un dialogo fra sordi)») e di Alfredo Maria Morelli («Catullo, o il lepos ‘impossibile’ del secondo Novecento italiano (Quasimodo e gli altri)»). Come il saggio di Morelli anche quello di Gianluigi Baldo propone il confronto dei poeti italiani con un autore-faro della latinità («“Orazio acuto e amaro”. Odi ed epodi in sei poeti italiani»); alla fortuna di un genere, l’elegia latina, è dedicato infine lo scritto di Marco Fucecchi. Nel saggio in appendice, di Giorgio Ieranò, è più breve la distanza temporale tra l’autore tradotto e il presente, ma non quella linguistico-culturale; né è minore l’interesse dell’oggetto, cioè la poesia neogreca dell’alessandrino Kavafis.
Il caso di Kavafis, che ha goduto in Italia di un’attenzione particolare, è emblematico: tra i suoi più famosi traduttori ci sono stati grecisti come Filippo Maria Pontani e poeti come Montale. Il traduttore-poeta e il traduttore-professore: dall’assunzione dell’una o dell’altra prospettiva dipende necessariamente anche il giudizio di valore. L’alternativa ha a che fare con la vexata quaestio evocata alla fine del saggio di Condello («Da una parte, la volontà di intendere e rendere la ‘lirica’ nella sua cifra presunta autentica … Dall’altra, l’inevitabile ancorché involontaria defensio della versione approvata, o almeno approvabile, dai Professori»), il più risoluto nella critica alle trascuratezze dei traduttori (bersaglio è il doppio volume Bompiani dei Lirici greci tradotti da poeti italiani contemporanei, a cura di V. Guarracino, 1991). La frusta del classicista, che coglie errori e inerzie degli emuli di Quasimodo, può toccare anche autori dalle spiccate qualità (Ceronetti, ad esempio, che Morelli giudica spesso «fuori fase rispetto all’originale» catulliano). Ci si chiede però, in certi casi, dove vada situato il confine tra l’oggettività dell’errore e la soggettività dello stile; o, in altre parole, quando intervenga il diritto all’incompetenza del traduttore-poeta nei confronti della filologia. D’altra parte, il volume articola una casistica di licenze e interferenze che comprende la «‘finta’ imitazione» e la «dizione postclassica» (così Baldo a proposito di Giudici e di Loi), l’«effetto-antico» e la «patina fonomorfologica artatamente d’antan» (Natale su Zanzotto), il «riverbero» delle riletture poetiche contemporanee (Bernardelli riguardo all’influenza di Ungaretti e Caproni sul Pasolini traduttore, che «svincola l’Eneide dai clichés nazionalistici» del ventennio per assimilarla alla luce destoricizzante della propria poetica).
Se, come questa, molte e cruciali sono le questioni che il libro solleva, altre restano complessivamente più in ombra. Per esempio, il ruolo della committenza (se ne fa cenno nel saggio su Raboni) e soprattutto le condizioni materiali nelle quali la traduzione è stata fornita, che possono incidere sul grado di fedeltà (passività?) rispetto ad altre precedenti traduzioni disponibili. Oppure la riflessione sulle eventuali differenze nelle attitudini del poeta alle prese con la versione di un testo classico e di uno moderno. O, infine, il confronto tra la disposizione al classico dei ‘poeti dotti’ tra Otto e primo Novecento (fino a D’Annunzio e soprattutto Pascoli, per il quale la rilettura dell’antico fu un aspetto sostanziale), e quella dei contemporanei di più incostante e multiforme dottrina.