La poesia è spesso una questione di contatto materiale con l’esterno. Lungi dal perdersi in un’ineffabile (e romantica) impalpabilità, attraverso la forza duttile della lingua essa crea continue scintille di senso, capaci di farci intravedere il mondo nella sua concretezza. È il caso del poeta californiano Forrest Gander, classe ’56, professore emerito in Letterature comparate alla Brown University di Providence, e premio Pulitzer nel 2019 con la silloge Be With, ora tradotta da Alessandro De Francesco (Essere con, più 6 fotografie di Michael Flomen, Benway Series, pp. 192, euro 20). Sentimento e scienza, etica e ambientalismo sono circonfuse in un dettame zigrinato, tiglioso che restituisce alla letteratura una sorprendente effettività.

Può guidarci nella lettura di «Be With»?
Il titolo proviene da una lirica della mia defunta moglie, la celebre poeta americana Carolyn D. Wright. Lo intendeva come una specie di scorciatoia per be with me o let’s be with each other. Tutti scopriamo che le nostre vite sono prive di significato se non per il fatto che ci troviamo in relazione con gli altri. Quando lei è morta improvvisamente, tale consapevolezza è svanita dalla mia vita. Per trent’anni la mia esistenza era stata una cooperazione con lei. Il mio essere era così profondamente infuso dal suo genio e dalla sua tenerezza, che mi sembrava di aver perso la mia intera sostanza. Le poesie nel mio Be With lottano per trovare un linguaggio oltre il normale, un metalinguaggio per metabolizzare la perdita e l’amore.

Nell’esergo del libro c’è un verso meraviglioso: «La politica inizia nell’intimità».
Penso che il modo in cui interagiamo con coloro che ci circondano, quelli a cui siamo più vicini, dica di più sull’«io essenziale» di tutta la nostra filosofia. Una vita di vera intimità con qualcuno richiede creatività, immaginazione, attenzione senza fine. Il comfort e la familiarità possono attutire le nostre percezioni, lo sappiamo bene. Ma l’etica – che contiene il politico – può essere ricondotta ai più piccoli gesti rivolti alle persone che pretendiamo di amare.

«L’essere con» possiede dunque una sfumatura quasi ontologica?
Uno dei più piccoli frammenti di Eraclito risemantizzati da Heidegger è «andare verso». Come chiunque altro, posso essere risucchiato nel mio egoismo, nel mio legno morto, nel mio senso di ipocrisia. Ma quando sono orientato verso gli altri, mi sento di nuovo risvegliato. Non conta necessariamente l’arrivo, ma l’andare verso. Dove puntiamo le nostre attenzioni? Il primo testo di Be With ci ricorda che anche i nostri organismi sono composti da tanti tipi di creature, dai batteri ai parassiti, il cui Dna è stato incorporato nel nostro Dna nel corso di millenni. Quando Rimbaud ha scritto «io è un altro», aveva ragione biologicamente. Esistiamo solo quando possiamo essere con gli altri. Eppure, è molto difficile per noi imparare ad accettarlo, ad assumerci la responsabilità, a riconoscere la nostra reciprocità.

Com’è affrontato il tema della perdita nella silloge?
Negli anni dopo la morte di Carolyn, tutto è stato perdita. Non c’era nessun posto dove guardare, dove non vedere la sua sedia vuota, la stanza tranquilla privata della sua voce. Sulla scia di questa assenza, ho sentito i miei ricordi svuotarsi, rotolare giù per lo scarico. Non ho scritto per un anno. Ma all’improvviso, forse per caso, le parole sono tornate: un vocabolario completamente nuovo, un approccio inedito alla poesia.
Temo che il lavoro di traduzione di questa lingua debba essere estremamente difficile. Uno svedese poliglotta che sta traducendo il libro mi ha scritto, dopo aver letto la versione italiana, per chiedermi di domandare ad Alessandro De Francesco, geniale scrittore e traduttore, «cosa diavolo vuol dire in italiano le candele da uova». In inglese è una vecchia espressione che si riferisce al processo, nel settore del pollame del secolo scorso, di tenere un uovo davanti a una candela per vedere se l’uovo è stato fecondato. In un certo senso, rispondevo così al mio dolore. Qualunque cosa guardassi, qualunque cosa tenessi alla luce, rivelava l’assenza di mia moglie. Niente era fertile.

La fertilità ci riporta alla natura. Cos’è esattamente l’ecopoetry?
L’ecopoetry è diventato una sorta di movimento internazionale. A differenza di ogni altro gruppo letterario o artistico, è iniziato in tutto il mondo quasi istantaneamente e tra i suoi scrittori più significativi sin da subito ci sono state donne come Inger Christensen (Danimarca), Coral Bracho (Messico), Julia Fiedorczuk (Polonia) e Harriet Tarlo (Inghilterra). La poesia ecologica si distingue dalla poesia della natura nel suo tentativo di non registrare semplicemente un incontro sentimentale con il mondo esterno, ma di trovare strategie letterarie che riconoscano il nostro essere inestricabilmente coinvolto nella natura e implicato nel destino del mondo.

Anche la geologia è molto presente nella sua poetica.
Un grande poeta americano, George Oppen, ha scritto: «Il sé non è un mistero, il mistero è/ che c’è qualcosa per noi su cui stare.// Vogliamo essere qui.// L’atto dell’essere, l’atto dell’essere/ più di sé stessi». La mia formazione in geologia mi ha insegnato a vedere in simultanea una grande struttura, la faglia trascorrente ad esempio, e le piccole strutture all’interno, come la deformazione dei cristalli nella roccia del basamento. Desidero che le mie poesie rendano conto sia dell’intimo che della vastità dell’esperienza, del particolare e dell’astratto. Penso che ciò su cui ci troviamo eticamente sia correlato con ciò su cui ci troviamo fisicamente. Siamo coinvolti in dove siamo, in ciò su cui camminiamo. La nostra base è la terra, in tutti i sensi.