Una poesia di Sylvia Plath, scritta nel 1962, rende in modo folgorante le contraddizioni cui può esporre la cura, tra il sibilo del bollitore e «lampi d’emicrania». Bellezza e creatività sono sembianze in dissolvenza nello spazio privo di finestre dove «impacchi le dure patate» e insieme «impacchi bambini» e «impacchi gattini malati», benché tu sia «colma d’amore». Da cui il verso iniziale, un vero e proprio grido: «Perversità in cucina!».
Ecco perché, soprattutto in un momento tanto cruciale della storia umana, qualora si nomini la cura lo sguardo delle donne è un tramite da cui non si può prescindere. Ed ecco perché un libro come quello curato da Maddalena Fragnito e Miriam Tola, Ecologie della cura. Prospettive transfemministe, da poco uscito per Orthotes editore (pp. 214, euro 18), si rivela uno strumento prezioso da un punto di vista teorico e politico. Nei dodici testi raccolti nel volume, come scrivono le curatrici nell’introduzione, vengono infatti assunte «come lente privilegiata quelle prospettive femministe che, non da oggi, hanno reso la cura un dispositivo critico, sensibile ai paradossi e alle ambivalenze».

NON PUÒ INFATTI ESSERE omesso il contesto nel quale «naturalmente» si dispiega la cura, vale a dire la famiglia eterosessuale, la divisione sessuale del lavoro, l’essenzialismo destinico del lavoro di cura addossato alle donne. Né, d’altro lato, può essere negato il ruolo delle relazioni e dei legami, l’importanza costitutiva della dimensione affettiva per l’individuo all’interno di una collettività, che si traduce anche in cura.
Dunque, una «materia umile», da sempre relegata nelle stanze più interne della casa storicamente abitate dai «subalterni», per usare le parole di Joan Tronto, fossero donne, schiavi o domestici, può rappresentare un bagaglio suggestivo per improntare in senso innovativo le politiche solo se «riorientata in senso socio-ecologico» e «ridefinita come pratica di relazione tra esseri umani e sistemi viventi e non-viventi», chiariscono le curatrici. La riconfigurazione dal basso della cura, scrivono Fragnito e Tola, indica infatti che «su questo terreno si gioca la possibilità di generare modi di vita che vale la pena vivere». Un passaggio obbligato nel presente, poiché è urgente costruire un risveglio dopo il trauma, mai davvero elaborato collettivamente, della pandemia, tra guerre dove ci muoviamo con profondo dolore e senso di vuoto. Ineludibile che i femminismi prendano parola sulle antinomie della cura che rischiano di presentarsi, oggi più di ieri, come conferma della logica del sistema in cui sono inglobate.
Risuonano, perciò, empaticamente, alle orecchie, alcune domande cruciali dell’introduzione: «Quali relazioni sociali vale la pena di rigenerare e quali invece devono essere disfatte per trasformare le condizioni di vita in comune? Quali cure generano altri mondi?».

L’UNIVERSO DI PENSIERI e pratiche cui attingere, parlando di cura, è davvero immenso e il volume cerca di restituirlo, consapevole di non poterne tratteggiare tutte le sfaccettature. Si osservano dunque quelle genealogie «complesse, non-lineari e animate da prospettive e progettualità distinte» che meglio vengono richiamate dagli interventi racchiusi nel volume: il rapporto tra etica della cura e teorie della riproduzione sociale; le forme di decostruzione e reinvenzione delle comunità curanti a partire dagli apporti del femminismo nero, decoloniale e trans; il ruolo dell’approccio ecologico e delle tecnologie nella cura.
Cosicché, insomma, è condiviso da tutte le autrici e da tutti i contributi, pur tra analisi e proposte differenti, la necessità di problematizzare il campo di azione del care nel quale si giocano stratificazioni di genere di razza e di classe. Non è un campo innocente, come dice Maria Puig de la Bellacasa, non va idealizzato come il luogo del sollievo o del conforto o della sollecitudine. L’assunto centrale del testo è l’utilizzo del concetto di cura come categoria politica, osservandone le potenzialità ma anche i limiti, continuando a considerare con attenzione le costruzioni ideologiche che pretendono di trasformarne la «realtà» per identificarla con ciò che è funzionale all’organizzazione della normalizzazione del corpo sociale. I vari contributi dialogano tra loro, nel tentativo di fornire risposte a un tema ambivalente: è ancora l’introduzione a sottolineare come da un lato la cura sia «un codice» utilizzato dal potere, dall’altro che «forme di cura alternative hanno creato rifugi tra le pieghe di un universo che si sfalda».
Quindi, si tratta di reinventare e sperimentare un welfare pubblico basato sul lavoro di cura universale con soluzioni finanziate dallo Stato ma organizzate a livello locale (Brunella Casalini), ma ciò significa anche che, «al di là della cura, la questione del comune, del comunitario, della comunità, delle trame comunitarie, sono elementi cruciali» (Amalia Pérez Orozco).

DA QUESTO PUNTO DI VISTA, la privatizzazione dei servizi pubblici, «la privatizzazione del futuro», accelerata con la pandemia non stupisce il collettivo Pirate Care (Valeria Graziano con Tomislav Medak e Marcell Mars) che invita a mettere tali problematiche al centro dell’azione politica, senza limitarsi a mobilitazioni emergenziali e di solidarietà.
Si aggiungono le questioni dell’aumento del lavoro domestico per le donne durante la pandemia nonché quelle poste «dalla lunga storia di organizzazione politica delle lavoratrici domestiche», messe in luce da Valeria Ribeiro Corossacz, mentre, su un altro fronte, Laura Centemeri affronta la cura da un doppio punto di vista: come logica arricchente della molteplicità delle relazioni oppure come lavoro invisibile, che sfrutta e depaupera.
In tutto questo non manca, con Mackda Ghebremariam Tesfaù, un approccio differente alla cura che viene dal femminismo nero: esso già presuppone una politicizzazione dello spazio domestico, visto il rapporto di conflitto e resistenza da sempre esistente tra nucleo domestico nero e nucleo domestico bianco. E, analogamente, è la «cura trans e queer» descritta da Hil Malatino a schiuderci universi immaginativi diversi per la cura: non più famiglia e donna eterosessuale, bensì spazi interconnessi, la strada, il bar, la clinica, il centro comunitario, l’aula scolastica sono la scena in cui si muovono le reti di mutuo soccorso e di supporto emotivo messe in piedi dalle comunità transfemministe. La cornice cambia radicalmente attraverso questo decentramento e insieme a essa cambiano anche l’approccio alla salute, ai servizi sanitari, alle forme egemoniche della cura, come spiegano Olivia (Oli) Fiorilli e Márcia Leite.

IN QUESTI PANORAMI trasformati, la cura si configura così come ce la restituisce Ilenia Caleo: un ecosistema, «un’intra-azione della materia attiva in tutte le sue forme estese e pensanti, noi comprese». Oppure, ancora, come un processo, orientato dalle domande di Françoise Vergès in dialogo con Maddalena Fragnito, Miriam Tola e Marianna Fernandes: «Che cosa ci tiene insieme? Perdersi nella foresta può diventare un momento di condivisione?».
Si tratta di mantenere «uno stato di curiosità permanente», di «aprirsi a momenti imprevisti e imprevedibili» e di «chiarire di continuo per quale politica della cura stiamo lottando».
Evidentemente, la dimensione globale delle relazioni di cura non sfugge alla trama di questo libro e riguarda senza dubbio l’ambiente naturale («il territorio terra-corpo» di Giulia Marchese – Red Sanadoras Ancestrales) così come, sul fronte solo apparentemente opposto, le estensioni virtuali dei social network e le dinamiche riproduttive che, letteralmente, essi incorporano (Bue Rübner Hasen e Manuela Zechner).
L’insegnamento che possiamo trarre, alla fine del viaggio tra queste pagine, è che la cura, se guardata sempre con una lente politica, non è solo una pratica, non è solo una disposizione affettiva ma può essere interpretata come una «forma di vita», capace di sovvertire le disposizioni individualiste ed egoistiche della contemporaneità.