«La verità è che la vera musica non è mai difficile». Così Claude Debussy, compositore al centro di D’istante, l’edizione 2021 di Forlì Open Music organizzata da Area Sismica all’Auditorium San Domenico. Otto brevi concerti in due giorni per indagare ancora una volta il rumore che fa il presente, cercando semi del futuro pure nel passato, nella convinzione che il lavoro sulla musica, oltre che culturale, sia un gesto politico. Negli infiniti oceani del suono infatti, citando Elio Martusciello, è possibile sperimentare «non più il reale dettato dall’occhio, ma il possibile suggerito dall’orecchio». Apre il duo di Francesco Dillon (violoncello) ed Emanuele Torquati (pianoforte), proprio con una Sonata di Debussy del 1915, un acrobata in bilico su una corda di melodia, tra languore e lontananza: un Oriente immaginifico e sensuale, in cui perdersi, respirando lo struggimento del viaggio, della fine.

NEL REPERTORIO del flautista Manuel Zurria svetta Burning is the new thing del compositore australiano Anthony Pateras, per ottavino ed elettronica, magnetica e perturbante, come appunti a margine di un’apocalisse alla moviola. Dopo due set a spartito è il momento dell’improvvisazione: prima il pianista Fabrizio Ottaviucci, che esplora la faccia nascosta della luna, avanzando nel buio del Novecento con un sapiente uso delle dinamiche, tra cluster minacciosi e delicati carillon alla Ligeti, febbri, fibrillazioni, rarefazioni. Magistrale il live elettronico di Martusciello, introdotto da un video esplicativo di cosa sia la musica acusmatica: un luogo dove l’orecchio ci mostra ombre e veniamo riportati alla condizione originaria dell’ascolto, atto a pre-vedere l’arrivo dei predatori. Mentre ci perdiamo in questi nitidi labirinti filosofici l’immagine dell’autore via via svanisce ed annotiamo un’altra frase:«La luce del suono moltiplica il mondo, è uno specchio». Il concerto è la traduzione di queste idee, una wunderkammer elettroacustica, un’esperienza di cinema per l’orecchio dove veniamo introdotti in una zona di tarkovskiana memoria. Un corpo a corpo con la materia sonora viva e cruda, dal dettaglio in miniatura all’abstract techno fino al noise più affilato, con una cura che dimostra come anche l’elettronica sappia essere umana, troppo umana: questo è il folk dell’Antropocene, metamorfico ed imprendibile.

LA SECONDA SERATA inizia con la veglia rarefatta e primitiva di Melody, un pezzo per campanacci ed elettronica scritto dall’americano Micheal Pisaro-Liu, discepolo della lezione di John Cage, per il percussionista Enrico Malatesta: un pulsare lento che quasi si confonde con quello delle cicale, un carillon sepolto nella polvere dei secoli o un giardino elettroacustico zen. Haiku ritmici sparsi e intatti dove l’unico evento è l’attesa dell’evento: il fascino del disadorno. Si toccano di nuove vette con il pianoforte di Ciro Longobardi alle prese con i tesori oscuri di Luigi Nono: …Sofferte Onde Serene… del 1976, per pianoforte e nastro magnetico, non smette di fungere da sirena con i suoi fondali di cluster, distanze e dissonanze.
Il Sidera Sax Quartet suona Plaza di Stefano Scodanibbio in platea, un musicista per ogni vertice del rettangolo: continuiamo a frequentare il cielo. Chiude in gloria l’improvvisazione al piano di Alexander Hawkins, il cui ultimo disco, Togetherness, per grande ensemble, è stato raccontato da Mario Gamba su queste pagine. Dopo i fuochi d’artificio di Novara Jazz, l’oxfordiano si conferma in stato di grazia, caleidoscopico e torrenziale, astratto e swing. Abbiamo di nuovo respirato l’ossigeno delle musica creativa, ne avevamo bisogno.