Julio González, “Autorretrato”, 1914-’18, Parigi, Centre Pompidou

 

Ritorna con frequenza, nella letteratura critica dedicata a Julio González, il giudizio espresso dal poeta Alexandre Mercereau di fronte alla sua prima personale, allestita a Parigi presso la Galerie Povolozky nel 1922: «si tratta di un uomo meraviglioso. Dotato di un’immaginazione abbagliante, versato in un’imprevedibile varietà di medium, è pittore, scultore, architetto, ceramista, produttore di mobili: forgia, martella, sbalza il ferro, il rame, l’oro, il bronzo, l’argento, lavora il legno, disegna vestiti e ricami; come se non bastasse, è modesto al punto da continuare a nascondersi, giunto da Barcellona in Francia ormai vent’anni fa».

Parole che hanno il ritmo di un’eulogia parnassiana piuttosto che la serenità riflessiva degli esami après vernissage ma anche pensieri in paradossale consonanza con quanto scritto da Margrit Rowell nell’introduzione per il più recente catalogo consacrato all’oeuvre del catalano: «la sua esistenza non ebbe una gran risonanza, la sua carriera fu breve, la sua personalità in ombra e la sua produzione modesta».

Dentro un’ermeneutica siffatta trova allora chiara ragion d’essere la mostra inauguratasi al Pompidou Malaga lo scorso 27 maggio e aperta fino al 16 ottobre; un evento che – in coda ad altre proposte espositive, fra cui la rassegna di Toulouse del 1999 o quella, di poco precedente, dal titolo evocativo di The Age of Iron (al Guggenheim di New York) – attira la curiosità dei visitatori su questa figura assieme centrale e appartata, la cui produzione poté intrecciarsi ai percorsi di colossi come Costantin Brâncusi e Pablo Picasso lungo l’eroica stagione delle avanguardie e poi fino agli anni tragici della Seconda Guerra Mondiale.

Del resto, tanto più l’evento odierno si radica in un progetto organico quanto più lo si colloca sullo sfondo dell’istituzione ospitante e sul calendario di iniziative da essa promosso: mentre lo scultore visse la quasi interezza di una personale parabola creativa al di là dei Pirenei, il Pompidou accoglie infatti, nelle sale progettate da Javier Pérez de la Fuente e Juan Antonio Marín Malavé, opere di sua mano provenienti però soltanto dalla capitale francese, frutto – nella maggior parte dei casi – delle donazioni rilevanti affidate al Musée national d’art moderne dalla figlia Roberta fra gli anni cinquanta e gli anni sessanta del secolo scorso.

Si tratta di una risposta ficcante alla missione culturale intrapresa dal «cubo» che sin dal 2015 svetta – grazie all’intervento luminoso di Daniel Buren – sull’esteso lungomare malagueño, ombreggiato dalle bianchissime strutture di Calatrava. L’accordo con la controparte parigina ha infatti garantito al centro andaluso un bacino di capolavori da sfruttare per progetti legati al Novecento spagnolo, secondo fili che intendono ripercorrere – idealmente e a ritroso – l’approdo sulla Senna di un oriundo della fatta di Picasso.

Non a caso, mentre al primo piano trova oggi spazio l’intelligente selezione consacrata allo scultore, in quello sottostante un ricco dedalo (costituito da testimonianze di rilievo, seppur a volte ideologicamente sfocato) testimonia del contributo iberico alla scena europea dal Cubismo al Postmoderno, inanellando nomi illustri a profili meno noti, da Dalì, a Tapiès, a Millares per arrivare a presenze inattese fra cui María Blanchard e Antonio López García.

Anche questa ‘galleria’ include ovviamente pezzi di González, in dialogo – seppure a distanza – con le creazioni, solide o filiformi, di altri compatrioti sperimentatisi nell’arte per via di porre, ad esempio Pablo Gargallo: è bene dunque attraversarne le sale per incontrare le miniature preziose del Don Quichotte (Don Quijote), datato al 1930, o de La Chevelure (La Cabellera), realizzata nel 1934, accanto ad alcune prove toccanti in pittura, risalenti all’ultimo decennio di vita dell’artista.

La monografica si intona invece a un andamento pausato e severamente cronologico. Grazie a riuscite celebri, a sbocchi riconosciuti e a testimonianze meno elette, spiega con efficacia un arco creativo discontinuo quanto coerente, col ricorso ad accostamenti parlanti e nell’incontro non logoro con tappe inattese di un corpus grafico generoso; rispetto all’altra esposizione, vi si dà pure conto delle ambizioni monumentali del González maturo, in contrasto dialettico col sensibile riserbo dimensionale esercitato nei saggi d’esordio.

Alla luce di una simile scansione, è assai suggestiva la parete che associa, quasi all’ingresso, la Jeune fille au broc (Muchacha con jarro) al Profil au chapeau (Perfil con sombrero), risalenti entrambi alla fine degli anni venti. La coppia chiarisce la rivoluzione ‘tecnica’ che avrebbe portato l’artista a rinunciare allo sbalzo per preferire il ferro «forjado, recortado, doblado»: nell’acquisizione di profili taglienti le sue opere conquistano innanzitutto un rapporto inedito col chiaroscuro, capace d’allontanarle in un attimo dal rugoso non-finito delle maschere martellate fino ad allora, riflessi ancora d’una diretta eco rodiniana.

L’evidenza grafica dei nuovi rilievi si fa ancora più lampante quando è possibile avvicinare gli esiti finali ai primi pensieri su carta. Didattico è in tal senso l’angolo che appaia la Petite maternité (Pequeña maternidad) ai fogli graffiati con la china per rastremarne il nodo figurale; ma, nel rispetto di una medesima prospettiva, offre stimoli maggiori l’archivio d’ ‘invenzioni’ tracciato da González per giungere ai risultati di sculture impegnative come La Femme se coiffant (Mujer peinándose) o L’Ange, L’Insect, La Danseuse (El Ángel, El Insecto, La Bailarina). Proprio per queste opere il paragone con la fase di studio è anzi qualificante: troppo spesso ridotte alla lectio picassiana – validata dalla collaborazione professionale che rinsaldò il legame del pittore con l’amico di gioventù tra il 1928 e il 1931 – ritrovano nel travaglio creativo una complessità d’ispirazione che il confronto costante ha finito per obliterare, assuefacendo gli sguardi contemporanei agli incastri proposti dal padre di Guernica nella Femme au jardin o nella Tête de femme sulla fine del terzo decennio.

Sembra tuttavia che nel voler assecondare l’efficace tridimensionalità di tali composizioni, l’allestimento sacrifichi un altro aspetto connesso allo sviluppo di tanto esigue silhouette, ridotte a un’immateriale essenzialità. Se è infatti possibile girare attorno alle figure, accompagnandone l’avvitarsi serpentino, le luci – assieme al vuoto delle pedane di supporto – neutralizzano qualsiasi proiezione d’ombra che pure la grafia metallica di González aveva intenzione di sollecitare. Per fortuna, in percorso, l’ingrandimento a gigantografia di una foto scattata da Marc Vaux nel 1934 ricorda quanto una qualità siffatta assumesse peso agli occhi della scultore: anzi, lo stesso documento visivo, mostrato a fine percorso, ne sottolinea le qualità di scrittura, costruite attorno a una dialettica sapiente fra pieni e vuoti, fra valori ‘positivi’ e valori ‘negativi’.