Dopo mesi di impenetrabile silenzio, il presidente del governo Mariano Rajoy si è presentato ieri in Parlamento per rispondere del presunto scandalo di tangenti e finanziamenti illeciti che lo coinvolge personalmente e rischia di travolgere tutto il suo partito. Un appuntamento molto atteso ma tutto sommato deludente, dato che dalla versione di Rajoy sono arrivate poche novità e una prevedibile conferma: il premier «non si dimetterà e non convocherà nuove elezioni». Con buona pace dell’opposizione, che ieri in aula ha ribadito, dopo le pressioni delle ultime settimane, la richiesta di dimissioni del primo ministro: «Le chiedo un atto di generosità nei confronti di un paese che non può permettersi di avere un presidente come lei», ha attaccato il segretario generale del Psoe Alfredo Pérez Rubalcaba in uno dei passaggi più tesi del dibattito, per lunghi tratti scivolato in un duello personale tra i leader dei due principali partiti spagnoli. Sulla stessa falsariga gli interventi di tutta l’opposizione (dai centristi di UpyD – che hanno agitato anche lo spauracchio delle mozione di sfiducia – fino alla sinistra radicale del gruppo di Izquierda Plural) unita in un coro di richieste di dimissioni dai toni anche molto aspri. Persino allarmati: «se Rajoy non lascia, c’è il rischio di una berlusconizzazione della Spagna» ha commentato ancora Rubalcaba, come a voler enfatizzare la gravità della posizione del premier. Rajoy incassa anche questa, e passa ad un contrattacco sterile. Non una spiegazione argomentata, non una prova della sua innocenza. «Non mi dichiarerò colpevole perché non lo sono». Così è, se vi pare. E se no, «bisognerà aspettare le indagini dei giudici». Poi modula la sua professione di innocenza riguardo ai fondi neri del Pp: «non sono a conoscenza del fatto che il mio partito abbia ricevuto finanziamenti irregolari». In altre parole: se i finanziamenti neri ci sono stati – e ed è quello che emerge dai quaderni della contabilità nera compilati dell’ex tesoriere del Pp e pubblicati dalla stampa – io non lo sapevo. Rajoy prova ripararsi dall’accusa di connivenza sotto il velo dell’incompetenza; ed è vero che quest’ultima non è un reato, ma inabilita comunque a ricoprire la carica di presidente del governo. E comunque – piccolo scatto d’orgoglio – «i conti del partito sono controllati dal tribunale fiscale». Quelli puliti, però; non quelli segnati a penna su un quaderno tenuto sotto chiave da un cassiere – Luis Bárcenas, intimo sodale del presiedente fino a gennaio e ora sua bestia nera – finito in carcere per riciclaggio, evasione (72 milioni su conti svizzeri al riparo dal fisco iberico) e sospettato di dispensare bustarelle a tutta la cupola del Pp. Dal carcere l’ex tesoriere – abbandonato dal partito dopo essere stato a libro paga fino a pochi mesi fa – è pronto a ribaltare il tavolo pur di non restare intrappolato nei panni del capro espiatorio: dopo le pagine della contabilità nera, Bárcenas ha divulgato, un paio di settimane, fa compromettenti scambi di sms con il premier, che renderebbero il «non sapevo» a cui si è aggrappato ieri Rajoy ancora più assurdo e insostenibile. Secondo alcuni il presidente non potrebbe raccontare di più: da dietro le sbarre Bárcenas sarebbe pronto a far filtrare nuovi documenti che potrebbero disintegrare i popolari.