In Italia, paese del conflitto di interessi endemico, la polemica sul fondo editoria non perde mai di quota. Mentre lo stato finanzia impunemente grandi opere inutili, eventi figli della malapolitica e micro-lobby di ogni genere, il finanziamento pubblico ai giornali istituito negli anni ’90 è percepito dall’opinione pubblica come la sentina di ogni male, il fondo “super casta”. Eppure il problema dell’editoria è serio e drammatico. Tanto più in Italia, dove il 55% delle risorse pubblicitarie va alle tv e non è distribuito equamente tra i vari media.

In Francia (dove il finanziamento pubblico ai quotidiani è ancora più generoso di quello nostrano) nello scorso febbraio il governo ha siglato un’intesa con Google. Il gigante di Mountain View destinerà 60 milioni di euro all’editoria transalpina come risarcimento “morale” per l’indicizzazione degli articoli prodotti dagli editori e il dominio sulla rete. Una sostituzione di risorse pubbliche da parte dei privati che ora anche l’Irlanda vuole provare a perseguire.

Il 28 maggio scorso Conor Brady, ex direttore dell’Irish Times ha chiesto al governo di Dublino di negoziare con Google una tassa simile. Anche perché l’industria dei giornali irlandese si trova ormai nella sostanziale “impossibilità di coprire le notizie – avverte Brady – ci sono meno giornali e meno giornalisti, che lavorano molte più ore al giorno e hanno incarichi molteplici, enormemente superiori e variegati rispetto al passato”. In più, tutta l’industria è soffocata dai debiti e dalla necessità di investimenti tecnologici molto costosi.

Il dibattito irlandese è paradossale per due ordini di motivi. Il primo è industriale: è come se Ford all’inizio del ‘900 avesse versato una montagna di dollari agli allevatori di cavalli. Il secondo è politico: è offensivo che l’Irlanda prima offra a Google, Apple e a tutte le multinazionali dell’hi tech aliquote fiscali paradisiache e poi si trovi a mendicare un obolo per la libertà di stampa o la difesa del diritto d’autore. La resa al mercato ancora una volta è totale e tragicomica. Con una mano lo stato non chiede soldi per l’erario pubblico, con l’altra chiederebbe soldi per darli direttamente alle industrie private, con tutti i rischi di condizionamento della libertà di stampa del caso. Se Google finanzia i giornali, questi saranno poi liberi di criticare i prodotti e le scelte di Mountain View?

In Italia la situazione è anche peggiore, tanto che perfino il Corriere della Sera sta lottando in questi giorni per non portare i libri in tribunale. Qui da noi tutti criticano un fondo editoria che costa poco (un euro e mezzo all’anno a contribuente) e al netto delle truffe e dei ladri rimborsa per meno della metà alcune spese di giornali particolarmente discriminati dal mercato come quelli editi da cooperative di giornalisti, partiti politici, associazioni di consumatori o associazioni non profit. Ma mentre tutti urlano insulti e agitano forbici, nessuno chiede alle Google di casa nostra, Mediaset e le altre tv, di contribuire al riequilibrio delle risorse.

[do action=”citazione”]Il vero problema dell’editoria, infatti, non è il finanziamento pubblico ma quello privato[/do]

Da anni le associazioni di categoria come Mediacoop, Fnsi e altre, chiedono al governo di aumentare la tassa sulle concessioni governative per le tv nazionali, ferme da decenni. E di destinare queste risorse alla carta stampata e alle pubblicazioni digitali. Sarebbe un modo per reperire i fondi all’interno del sistema dei media senza chiedere sacrifici o prendere le tasse dei cittadini. Basterebbe un comma nella prossima finanziaria e il problema sarebbe risolto: lo stato tasserebbe gli editori “ricchi” (le tv) per destinarli a quelli “poveri” (le cooperative e i “blogger”) secondo criteri oggettivi legati all’occupazione giornalistica stabile e alla presenza vera nelle edicole e nel web. Non ci sarebbero esborsi impropri né sponsor occulti. Un intervento davvero “riformista” e per questo inverosimile nel “governo di compromesso” Letta-Berlusconi.