Tempo fa ho letto un libro. Un libro scritto da una donna. Di cui non avevo mai letto nulla. Il cui titolo non era traducibile e comprensibile in italiano, di cui dunque ignoravo il significato. La copertina estremamente affascinante, mi ha tirato subito in libreria. Vi è ritratta una donna in bianco e nero, una giovane donna, con lo sguardo fisso nell’obiettivo, occhi scuri penetranti, cipiglio irruento da provinciale, una sorta di forza arrabbiata nell’espressione.
Compro il volume e lo metto nella pila dei libri da leggere. Un giorno mi viene la febbre e lo attacco. Ho davanti a me tutta la giornata per leggere, sono libera da impegni, la febbre mi salva dalle incombenze familiari e dunque sul letto, praticamente in pigiama, sfoglio e divoro le 176 pagine che compongono la storia di questo romanzo. Sono avviluppata, in poche righe sbattuta nel mezzo di una famiglia povera abruzzese, della aspra campagna abruzzese: è una famiglia numerosa, in cui tutti sono, in parte, ricordando Scola, brutti e cattivi. E pure sporchi. La protagonista è la figlia biologica di questi fertilissimi genitori, data via alla nascita ad una famiglia, lontanamente legata per via parentale, infertile, che non riusciva a concepire figli.

 
La famiglia adottiva abitava in città, in una bella località di mare, era una famiglia borghese, benestante, che ha offerto per una quindicina di anni alla bambina, poi divenuta ragazza, una vita agiata. D’un tratto la ragazza viene restituita al mittente come un pacco avariato. Senza una spiegazione, senza un motivo apparente.

 
Una valigia e una sacca di scarpe e un addio dell’uomo che fino a quel giorno ha chiamato papà. La nuova vita è dura da vivere, non ha comodità, non ha lussi, in casa vige la legge del più forte, tra fratelli si lotta per il boccone migliore, il letto migliore, la possibilità di fare meno possibile.
La protagonista deve trovare il modo di non soccombere, di non essere annientata dall’anaffettività della madre (che non regala carezze neppure all’ultimo nato, leggermente ritardato), dalla crudeltà primigenia del mors tua vita mea, dalla competizione tra fratelli a cui è totalmente non avvezza e impreparata.
La lingua con cui viene raccontata questa vicenda è tagliente, limpida come un diamante, sfaccettata e dura: colpisce alla gola, allo stomaco, all’anima.
Esattamente come la materia che si sta narrando.

 
Lei, continuando a mantenere vivo un nocciolo morbido all’interno, si indurisce, si avvicina alla sorella più piccola, Adriana, la accudisce maternamente come ha visto fare su di sé dalla madre (prima dell’inspiegato abbandono), si invaghisce del bellissimo fratello maggiore, Vincenzo, zingaresco ragazzo perduto, in maniera violenta come l’urto di una lamiera contro un muro, trova zigzagando alla rinfusa il modo di crescere.
È un libro sull’identità, sulla fraternità, sui legami biologici e i legami affettivi.

 

 

 

Forse per ragioni personali, forse perché ho una sorella nel nord Italia quasi coetanea che quasi non conosco e che comunque non mi vuole, forse perché da madre vedo cosa possa voler dire l’amore per un figlio, per tutte queste ragioni ho amato pazzamente il libro. Come una ricetta ben dosata questa storia mi è entrata dentro, non mi ha lasciato per giorni, tutt’ora contino ad ospitarla in qualche parte dentro di me. Questo romanzo si chiama L’arminuta e lo ha scritto Donatella Di Pietrantonio.
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