È sordo come una campana! La pervasiva presenza di iPod, iPhone e affini, con relativo corredo di cuffiette, dovrebbe garantire lunga vita all’antico detto, contando sulla cronica sordità destinata ad affliggere – sono parole degli esperti – le generazioni più giovani approdate a maturità. Resta da capire attraverso quali percorsi possa giungere alla sordità la citata campana. Lo chiariva, in una breve ma densa nota, Gianfranco Folena, rintracciando l’antenato del nostro motto nella meno diffusa espressione «è un campanaro», equivalente a «è sordo», cui accostava il lucchese «campanaro», sinonimo di «sordastro» e l’analogo «sonar campane», cioè «fare orecchie da mercante», per dirla col Manzoni. Non dunque un riferimento a una improbabile campana fessa, che avrebbe restituito un suono sordo, ma un rifacimento o un fraintendimento di un’espressione proverbiale, che da ‘campanaro’ era finita per condensarsi nel più diffuso ‘campana’. È, questo, uno dei tanti, piccoli recuperi lessicografici che racchiude il bel volume appena uscito presso l’editore Carocci nella serie «Antologie-Storia linguistica» diretta da Luca Serianni: Gianfranco Folena, Lingua nostra, a cura di Ivano Paccagnella (pp. 324, euro 27,00).
Entrato in Normale nel 1937, all’età di diciassette anni, Folena frequentò maestri del calibro di Michele Barbi e Giorgio Pasquali, e proprio su consiglio di Pasquali prese a seguire le lezioni di Bruno Migliorini, fresco di nomina alla prima cattedra di Storia della lingua italiana, a Firenze. Il magistero di Migliorini segnerà tutto il percorso accademico di Folena che, dopo l’interruzione della seconda guerra mondiale e una lunga prigionia in India, si laureò con una tesi sulla lingua del Sannazaro e riprese la collaborazione con «Lingua nostra», la rivista diretta da Migliorini su cui aveva già pubblicato un contributo nel ’41. Approdato a Padova nel 1954 come incaricato di Storia della lingua, due anni dopo era già professore ordinario. Vi tenne la cattedra per oltre un ventennio ricoprendo anche l’insegnamento di Filologia romanza. A Padova fondò, nel 1963, il celebre Circolo Filologico-Linguistico Padovano, nelle cui dichiarazioni programmatiche sta tutto il succo dell’insegnamento di Folena: «Il nostro circolo non vuole né può vantare prerogative teoriche o metodologiche; in un’epoca incline al formalismo logico e all’astrazione spesso dogmatica, in cui rimane sempre meno tempo per leggere e per conversare, si finisce non di rado per perdere di vista l’oggetto della comunicazione, le cose e il valore delle cose». L’alleanza di filologia e storia della lingua, l’attenzione all’oggetto della ricerca, alle parole e alle cose, o forse meglio alle persone e ai volti che stavano dietro a quelle parole, nel magistero di Folena furono sempre costanti. Come costante e pervasiva era, secondo le testimonianze degli allievi, la sua coinvolgente umanità, il suo entusiasmo contagioso per la ricerca, la sua capacità di promuovere iniziative culturali ad ampio raggio, lungo l’asse della storia e della geografia; con predilezione per le aree geograficamente più periferiche, secondo l’intuizione di un altro grande maestro di quegli anni, Carlo Dionisotti, che Folena giudicava, non a caso, «forse il maggiore, il più ricco certo di interessi storici, fra gli storici della letteratura e della cultura italiana».
La raccolta di note e brevi saggi che ora si offre ai lettori rispecchia in pieno il percorso di ricerca e il magistero accademico di Folena. Sono cinquantaquattro contributi scanditi in forma di annuario, dagli esordi del 1941 fino al 1976, e corredati da un utile indice dei lemmi commentati. Si attinge principalmente a quanto apparve su «Lingua nostra», ma qualche intelligente inserto è tratto anche dal «Giornale Olivetti Informazioni», cui Folena collaborò per un triennio (1974-1976), forse grazie alla mediazione di Ludovico Quaroni e Rigo Innocenti, stretti collaboratori di Adriano Olivetti e già suoi compagni di prigionia in India. Chiudono il volume due interventi un po’ più corposi, dedicati alla storia della lingua in rapporto al mondo della scuola. A questo punto il lettore potrà muoversi a suo piacere adeguandosi pianamente a un percorso cronologico o affidandosi al gusto personale. Ecco dunque che troverà soddisfatta la sua curiosità per parole dalla fisionomia culturale più consistente, come il ‘chiaroscuro’ rintracciabile tra le righe autografe di Leonardo, o si sposterà più in basso per incontrare, accanto al già menzionato ‘sordo come una campana’, il semidialettale e settentrionale ‘mi bevo un’ombra’, che a onta delle improbabili origini longobarde, farà invece il paio con altre espressioni quali il veneto ‘gnanca l’ombra’, ossia ‘nemmeno un poco’, o col meno regionale ‘senza ombra di dubbio’, a indicare una quantità minima, nel caso, di vino. E si potrà proseguire addentrandosi nel lessico del latroneccio toscano, imparando che tale gergo veniva denominato dagli adepti ‘ciaraffo’, di origine malcerta, e che ‘frullina’ valeva orologio, mentre ‘lasagna’ indicava il portafoglio.
Risalendo verso Arezzo e verso uno stile aulico, indietro nel tempo di qualche secolo, ecco emergere, in Guittone, un ‘pensamento’, che, rimesso filologicamente a nuovo grazie all’immancabile confronto sui manoscritti e schedato alla luce della precedente tradizione lirica, chiariva il suo senso in un ben perspicuo ‘tristezza’, in parallelo con dolore e noia e in contrapposizione a piacere e gioia. Un secolo più in giù, ancora il controllo sui manoscritti permetteva a Folena di giustiziare un’incongruenza accollata a Leon Battista Alberti, laddove l’umanista notava come «cosa assurda se le mani di Elena fussero vecchizze e gotiche». Ma mani gotiche nel senso di ‘rozze, antiquate’ non si davano né quanto al senso né quanto alla cronologia del lemma. E infatti il manoscritto «ha subito confermato: vi si legge chiaramente zotiche», ossia, callose come quelle dei contadini.
Molto altro si potrebbe ricordare, come le rapide e ficcanti incursioni nel linguaggio sportivo, incursioni di chi «da giovane – ammetteva candidamente Folena – ha praticato qualche sport senza distinguersi in nessuno e che oggi non è neppure tifoso». E nelle acute note dedicate al tecnoletto sportivo – una sorta di linguaggio speciale – dove ‘corner’ si alterna a ‘calcio d’angolo’ e ‘lob’ a ‘pallonetto’, e dove ‘alzare’ allude immancabilmente al tiro sopra la traversa e ‘lanciare’ asseconda lo scatto di Gigi Riva, Folena dedicava un pensiero di umana solidarietà, alla «orgia postdomenicale di avvenimenti sportivi rivissuti verbalmente e commentati negli uffici e nelle fabbriche, il ‘Lunedì del villaggio’, che concede all’italiano medio e subalterno di prolungare in sogni cartacei ‘il dì della festa’ rivivendo le azioni dei suoi eroi, più spesso illustri per la ‘fortuna’ che per la ‘virtù’».