«Ciò che ho visto e sentito ho messo in versi / che un giorno forse qualcuno avrà incontrato. / Per lui avranno un senso / (come per me Rutilio o Ripellino). / Per gli altri, se è destino, insieme a tutto il resto andranno persi». Si potrebbero tenere queste rime come guida per orientarsi nella recente raccolta di Alessandro Fo, Filo spinato (Einaudi «Collezione di poesia», pp. 117, € 11,00). A partire da quell’omaggio esplicito a due suoi autori-fari, e in particolare a Angelo Maria Ripellino: una rivendicazione di contenta marginalità che sembra facile accostare, per esempio, al distico che chiude proprio la poesia d’esordio de Lo splendido violino verde ripelliniano: «Ma lo sai bene: altre pagine non impediranno / che io sia allegramente dimenticato» (e la traccia di Ripellino tornerà in effetti a farsi sentire esplicitamente più volte).
La voce di Fo ha come sempre una grana affabile, il tono conversativo si appoggia su un verso che non di rado si distende, in cerca di una misura più narrativa che schiettamente lirica, quasi nel desiderio di contenere tutto l’essere: i suoi fenomeni, gli oggetti, le figure incontrate e sempre pronte a riaffiorare, qui vengono affidati alla fragile custodia della memoria («questa nebbia di ricordi in versi», si legge nella chiusa stessa del libro). La sua è l’eleganza di chi sa raser la prose, ma la accende poi di qualcos’altro, un dettaglio inatteso o una rivelazione: sembra che la vita quotidiana, per come si rapprende nelle parole di questo poeta, non abbia rinunciato a contenere qualcosa di magico, diciamo pure di sacrale – dalle suole alate di una passante a un volto che riporta a quello di un ragazzo morto – nonostante la vita stessa sembri talora condannata a essere solo un catalogo di «minime mansioni», di insensatezza.
Il dettato di Fo è un impasto coltissimo, certo – siamo pur sempre di fronte a un lettore raffinato e a un classicista di razza, il traduttore di due giganti occidentali come Virgilio e Catullo –, ma un verso di Leopardi può anche mescolarsi al ritratto di un amico, di un poeta appartato e carissimo all’autore di questi versi – Enzo Mazza – rivisto negli ultimi giorni della sua malattia (Leopardi affiora in un malato di Alzheimer). La Musa del Nostro scende insomma volentieri dalla sua Elicona e gira per le strade del mondo, fra sale d’aspetto e case di riposo, fra luoghi di pena e frammenti di una vecchia contrada senese: è disponibile nei confronti della realtà, di tutta la realtà. La prima cartina di tornasole in tal senso è, abbastanza esplicitamente, quella linguistica. La lingua di questa poesia sfrutta, con costanza, ingredienti anche molto diversi fra loro, per restituire il multiforme – e magari anche tragico – spettacolo del mondo. Basterebbe una minima infilata di esempi (le cyclettes, i barbiturici, il sacchettino di plastica, il plexigas, e ogni tanto qualche macchia di un Novecento osservato con nostalgia, come per il carillon che spunta in uno dei primi testi, ed è naturale pensare allora alle banconote e ai vecchi filmati che facevano da insegna a due sue raccolte più antiche). Si arriva comunque fino al pieno contemporaneo e ai suoi feticci (facebook, l’account, i post, le mail, ecc.), mentre proprio l’inglese può servire anche a graffiare un titolo esplicitamente foscoliano come Dei sepolcri, again, rendendolo, in maniera un po’ paradossale, più aereo e ‘leggero’, meno bronzeo: più nostro.
Che Fo sia un poeta per così dire en plein air, un poeta dell’evento – e persino dell’effimero – sono proprio i titoli delle singole poesie a dirlo per primi, con la loro miniera di occasioni, variamente scalate fra un ricordo storico o un fatto minuscolo (una visita al lager di Dachau in Fuori Monaco, una Lettera da Firenze, uno scatto, un articolo di giornale, ecc.). Delle tre sezioni che compongono il libro, la prima è forse la più varia (Ingannare il tempo). E non lasciamoci sviare troppo dalla frugalità dei modi: l’intera raccolta è pure una meditazione sulla morte e, anche più umanamente, sui segni delle stagioni e sul mistero doloroso dell’invecchiare («anche questo nostro esiguo evento / ha trovato oramai il suo compimento, / assorbito dentro una poesia. S’invecchia»). Segue un drappello di poesie nate da «un’esperienza di volontariato culturale in istituti di pena» – come si legge nella nota autoriale in forma di Appunto che chiude il volume – riunite sotto il titolo di Muto carcere (con epigrafe e richiamo al «cieco carcere» dantesco). Alla prigione, nell’ultima zona del libro, si sostituisce invece come luogo-simbolo il sepolcro, come si è anticipato, ovvero il dialogo con i morti, spesso i propri. Torna, allora, l’ombra del padre che già era centrale nella scorsa fatica di Fo, Mancanze (uscita nel 2014), affiancata qui dalla figura della madre, che è soprattutto la protagonista in absentia di una delle liriche più intense dell’insieme – Natale con sorella a Prima Porta – dove rispunta da una fotografia: «la foto / di una donna che legge e intanto fuma, / e ancora non mi ha neanche nel pensiero. / Lei era e io non ero. / Ora io sono, e lei, (credo, lo spero) / lei, che qui non c’è più, è per davvero». Forse dietro la presenza materna si può intravedere anche l’attenzione di Fo a un altro grande classico – stavolta cristiano, dunque ben in linea con i fremiti teologici di questo poeta, e sia pure, quella di Fo, una teologia ‘minima’, pronunciata perlopiù sottovoce – cioè Agostino. Non a caso in una delle prime poesie del libro, Arcangeli del Corelli, viene citata l’estasi di Monica, la madre di Agostino, a Ostia (e anche in questo caso interviene la fotografia, quella di Giampiero Corelli appunto, che costituisce l’occasione-spinta del testo).
Poeta creaturale – di una creaturalità opportunamente aggiornata, persino 2.0 – Fo gioca molte delle sue carte sull’ospitalità delle proprie parole: fra i suoi versi c’è posto per la confessione come per la registrazione, insomma per sé come per gli altri (o l’Altro). È ciò che suggerisce, in fondo, anche il sintagma-titolo, quel «filo spinato»: nel penultimo testo sigilla un omaggio a Liliana Segre – alla storia collettiva – nell’ultimo è invece il titolo di una poesia privata e «familiare», nella quale vengono rievocati il padre Fulvio, lo zio Dario e il nonno Felice, miracolosamente scampato alla morte in guerra. E ancora una volta, in chiusura, chi scrive è intento a rovistare nel passato, a sfogliare vecchie immagini: cavaliere malinconico o Orfeo in borghese, silenziosamente intento a mettere in salvo una «distesa prodigiosa / di scordate esistenze».