Mi colpisce che i pezzi sugli artisti inizino, qui, con la città della mostra visitata: come quelli d’un inviato in terra straniera. Perché tale, in effetti, è chi come me pretenda di recare sull’arte uno sguardo da Persiano di Montesquieu. Imperdibile, allora, la mostra curata al Quirinale da Anna Mattirolo: Da io a noi. La città senza confini, fino al 17 dicembre. La prima ragione vale per tutti: è la prima volta che uno spazio così istituzionale si apre all’extrême contemporain (cioè ad artisti di una generazione non ancora canonizzata: da Alfredo Jaar, del ’56, ai gemelli De Serio, del ’78, più due o tre fuori quota come Jimmie Durham e Alberto Garutti). Non è banale visitare gli interni del Quirinale, e com’è ovvio ne vale la pena. La seconda è una rivalsa personale: per quelli dell’estrema periferia, più prestigio vanti il centro di una città più rappresenta un supplizio di Tantalo (a Roma per esempio l’occhiuta ZTL, e lo sfacelo dei trasporti pubblici, contrappongono due fasce urbane incomunicabili). Tale da ispirare, ai forclusi come me, un risentimento – per i soggiornanti nel centro storico, ignari del magma sociale che fermenta a una decina di chilometri da loro – che a ragione un’amica artista, una volta, ha definito razzista. Il quieto Persiano si trasforma allora in Calibano che schiuma sangue cattivo, come nella Stagione all’inferno di Rimbaud. Ma ognuno, si sa, è il terrone di qualcun altro. E allora la rivalsa dell’outsider consiste nel fare la fila, fuori del Palazzo, insieme a chi è aduso a muoversi, ovunque, con magica souplesse. Il Centro che più Centro non si può, con sovrana equità, ci tratta tutti come meteci della medesima Suburra.
Più che giusto, allora, che la mostra sia dedicata all’immaginario delle periferie. Un cortocircuito esplicito illustra i Turisti di Maurizio Cattelan: piccioni raggelati nella consueta tassidermia illusionistica, appollaiati sulle opere altrui nonché su marmi e pannelli dorati della Sala di Augusto (quella del Trono, cioè, di Papi e Re). «Con questa semplice dislocazione», scrive Mattirolo, «la solennità dello spazio espositivo viene violata, annullando i confini fra interno ed esterno». Uno spiazzamento «metafisico» che dà, all’intera mostra, una coerenza tutt’altro che banale. Nella stessa sala, due delle installazioni più efficaci: My weakness di Vedovamazzei (al secolo Stella Scala e Simeone Crispino) è una pila di materassi attempati e forse lerci – giacigli da clochards che vantano però, da Rauschenberg a Tracey Emin, una loro nobiltà d’en bas – sui quali troneggia la Bianchi miracolistica dell’eroe plebeo Fausto Coppi; Seconda chance s’intitola il lavoro di Eugenio Tibaldi: una struttura di tubi Innocenti bricolés dai paesini lucani alle industrie dismesse nelle Marche (vi campeggiano come ex voto messaggi, in italiano incerto, di persone che commentano il loro risiedere lì).
Non può mancare il tema dell’immigrazione: è nel campo di battaglia delle periferie che vengono alla prova gli stereotipi della correctness, e i non meno stucchevoli cattivismi, della doxa. Sulla pelle delle persone reali, cioè (e dunque negli occhi, difficili da dimenticare, della siriana Rasha nel video di Adrian Paci, albanese di Milano). Bellissimo Undercurrent di Mona Hatoum: un tappeto ortogonale di fili elettrici che, verso la «periferia» del disegno, si aggrumano in viluppi sempre più caotici, terminando in lampadine la cui luminosità cresce e decresce a un ritmo vitale. Luccica pure, in rosso, la scritta al neon di Alfredo Jaar. È una frase di Gramsci: «IL VECCHIO MONDO STA MORENDO. QUELLO NUOVO TARDA A COMPARIRE. E IN QUESTO CHIAROSCURO NASCONO I MOSTRI». Questa la sigla della mostra: che vale negli anni trenta del secolo scorso quanto, si capisce, nei nostri di ri-fascismi insorgenti.
Non è un caso che alla stessa Mattirolo (insieme a Gabriele Guercio) si debba una raccolta di saggi il cui titolo, qualche anno fa, suonava Il confine evanescente. Il «confine», allora, era quello dell’«“arte italiana 1960-2010” in un luogo indefinito tra affermazione e negazione, tra l’Europa e l’America, l’Italia e il resto del mondo». Evanescente è appunto il confine che pretende di dividere identità artificialmente irrigidite, Centri e Periferie. Che, nel concreto storico delle arti, si sono scambiati di posto più spesso di quanto, ideologicamente, si sia voluto ammettere. E se c’è un artista che oggi lavora sulla fluttuazione dei bordi, sull’ambiguità dei dentro e fuori, è Flavio Favelli. Grande Galleria è il titolo ironico, ma anche no, di una luminaria proveniente dalla Puglia: un’efflorescenza di umili, candidi legni da sagra patronale, con fioche lampadine sovrapposte a quelle obese che gravano sui lampadari giganti della Sala d’Ercole (il lavoro, poeticissimo, è messo in gioco con le balle di coriandoli, la festa pietrificata di The Man Who Fell to Earth di Lara Favaretto, e con le montagne russe di una delle Eterotopie fotografiche di Francesco Jodice). Quasi nascosto, nella Sala del Balcone, Panorama di Luca Vitone: l’artista della sua generazione, cioè, che (come si vede nella bella personale Io, Luca Vitone in corso al PAC di Milano, sino al 3 dicembre) più piega in direzione «civile» il proprio background concettuale. Tre cannocchiali puntati su uno dei panorami più esclusivi della città, anziché le cupole scipionesche che ti aspetti, mostrano i terrapieni sconvolti dell’Accattone di Pasolini. Centro, e Periferia, sono solo punti di vista.