Il Tour de France parte oggi dall’Italia. Si tratta della 26esima volta che la corsa prende il via fuori dai confini francesi, ma la partenza dalla Penisola è un inedito assoluto. Nelle parole del patron Christian Prudhomme, viene così sanata un’inspiegabile «incongruità» e reso il dovuto omaggio ai campioni azzurri che hanno contribuito al mito della Grande Boucle.

Teatro del Grand Départ è Firenze. La città si è a lungo preparata al vernissage in giallo, che è persino entrato nella campagna elettorale per Palazzo Vecchio: il candidato del centro-destra Eike Schmidt ha infatti paventato gli effetti dirompenti del passaggio della corsa in un ambiente urbano già quotidianamente stressato da un traffico snervante, cui la neo-sindaca Sara Funaro ha replicato invitando il rivale a studiarsi la storia di Gino Bartali, che rischiò «la vita per salvare gli ebrei dalla ferocia nazista». Anche se sorvola sul la fattiva collaborazione dei fascisti italiani alla Shoah, l’affermazione centra però in pieno il senso commemorativo dell’evento: onorare «Ginettaccio» a 110 anni dalla nascita. Il campione dal «naso triste come una salita» costruì la sua gloria agonistica e divenne una leggenda non solo sportiva proprio sulle strade di Francia, colonizzando quel territorio particolare in cui sport e politica costituiscono un corpo unico.

Nel 1937, alla prima partecipazione, conquistò la maglia gialla che dovette però cedere per i postumi di una rovinosa caduta nel torrente Colau. L’anno successivo, il regime fascista gli impose di saltare il Giro (già vinto nel biennio precedente) per preparare al meglio il Tour, che Bartali si aggiudicò distanziando di oltre 18 minuti il belga Félicien Vervaecke. Sul podio di Parigi, evitò il saluto romano, distinguendosi dai calciatori che in quegli stessi giorni vincevano in Francia la Coppa Rimet, e anzi offrì il suo aiuto al compaesano Mario Alessi, già dirigente della federazione comunista toscana, affidandolo alle cure di un caritatevole sacerdote di Lione. Da fervente cattolico, dedicò il successo alla madonna e incontrò Pio XI, che gli impartì la pontificia benedizione.

Tuttavia, è nel dopoguerra che Bartali si pose all’esatto crocevia fra la piccola storia dello sport e l’irta traiettoria della sofferta ripresa post-bellica, quando gli italiani si volsero agli eroi del pedale per lenire le ferite materiali e simboliche lasciate da vent’anni di dittatura e dalla sconfitta militare. Nel documentatissimo volume Giochi diplomatici, è stato Nicola Sbetti, docente all’università di Bologna, a indagare i riflessi delle imprese dei ciclisti azzurri sul destino della neonata Repubblica e sulla delicata questione delle relazioni tra Italia e Francia.

Per quanto sia priva di fondamento la tesi secondo la quale fu la vittoria di Bartali al Tour del 1948 a salvare l’Italia dalla rivoluzione, nei giorni tesi dell’attentato a Palmiro Togliatti, occorre invece dare il giusto rilievo al suo ruolo di «magnifico ambasciatore di pace», fu ricevuto dal Presidente della Repubblica francese, Vincent Auriol, e a cui pervenne l’offerta della cittadinanza onoraria dalle autorità belghe e svizzere.

Non si deve peraltro pensare a un quadro sempre idilliaco dei fatti. Se Jacques Goddet, direttore del Tour, auspicava la partecipazione alla gara di corridori come Bartali, che – nelle sue parole – «aveva tenuto un contegno irreprensibile durante la guerra», altri covavano invece profondi sentimenti anti-italiani. Già l’edizione del 1947 fu segnata dalle tensioni dovute al malcontento lasciato dal trattato di pace e l’Italia si presentò con una squadra priva degli alfieri Bartali e Coppi. Eppure, a due tappe dal termine, gli azzurri Brambilla e Ronconi capeggiavano la classifica e fu una «santa alleanza» fra le squadre francesi a isolare gli italiani e a consegnare la vittoria finale a Jean Robic, fra le vibranti proteste della Gazzetta dello sport che scrisse di «un vergognoso miscuglio di interessi e di scambi antisportivi».

Nel 1949, il Tour sconfinò in Valle d’Aosta, anche in risposta alle pressioni delle frange annessionistiche francesi e dei gruppi valdostani filo-francesi. Il 19 luglio, Coppi giunse con ampio margine sul traguardo di Aosta, sfilando a Bartali la maglia gialla che avrebbe portato fino a Parigi. Più importante, ai fini del nostro racconto, è rammentare quanto accadde nella discesa del San Bernardo, dove i ciclisti transalpini furono bersagliati da sassi, spinte e ingiurie. Secondo la ricostruzione inviata alla Farnesina dall’ambasciatore Pietro Quaroni, l’episodio era da ascrivere all’azione di elementi neo-fascisti del MSI, fra i quali figurava anche Giorgio Almirante.

L’attrito italo-francese culminò nel 1950. Fra i francesi, la percezione di inferiorità per i trionfi di Bartali e Coppi degli anni precedenti fu rinforzata dal dominio azzurro nelle prime tappe, cui la stampa replicò accusando gli italiani di essere dei «succhia-ruote», secondo una narrazione ripresa anche dal direttore tecnico francese, che anzi propose un accordo con i belgi per «strigliare» gli italiani. Col passare dei giorni, il clima di ostilità crebbe, come anche Bartali ebbe a registrare nel diario quotidiano che teneva sulla Gazzetta dello Sport. Il «fattaccio» avvenne il 26 luglio: mentre erano in fuga sul Col d’Aspin, a causa di un’imprudenza di un fotografo, Jean Robic e Bartali finirono a terra. La folla fu subito addosso ai due, per aiutare l’uno e ostacolare l’altro. La versione ufficiale dell’accaduto sentenziò che Bartali era stato colpito «ripetutamente», mentre il cronista della Gazzetta scrisse addirittura di una «muta di energumeni» intenti a strappare la bicicletta al toscano. Alla fine, Bartali vinse comunque la tappa e Fiorenzo Magni indossò il simbolo del primato, ma quasi tutti portavano i segni delle violenze subite.

Soprattutto su pressione di Bartali, l’indomani sia la squadra ufficiale che quella dei cadetti si ritirarono: secondo il capitano abbandonare era la sola «decisione compatibile con l’onore del ciclismo italiano e la nostra sicurezza personale». Gianni Brera, che nel gruppo dei giornalisti era fra i più influenti, approvò la ribellione, altrimenti i francesi «tratteranno tutti gli italiani come trattano i poveri cristi che vengono da loro a sgobbare per un tozzo di pane».

Il ritorno in patria della squadra fu una sorta di evento mediatico, condito da una piccola ondata di nazionalismo sportivo. Diversi giornali lanciarono pubbliche sottoscrizioni per risarcire i corridori dei mancati guadagni. Lo stesso Bartali mise a disposizione dei gregari la somma di tre milioni di lire.

A dimostrazione di come i campioni dello sport potessero incarnare le aspirazioni di riscatto degli italiani, anche e soprattutto di quelli emigrati all’estero, per finire vale la pena citare una lettera spedita all’Ambasciata italiana. Un gruppo di tifosi vi si complimentava con Bartali per aver difeso l’orgoglio italiano, anche in sprezzo dei propri interessi materiali. Affermavano altresì che i 950.000 connazionali residenti in Francia erano fieri del gesto dignitoso con cui i ciclisti azzurri avevano risposto alla «viltà» di certa stampa e di certo pubblico francese e, allo scopo di mostrare solidarietà e comunanza d’intenti, anche loro proponevano una colletta «a favore di Bartali e dei suoi cari compagni».