A che punto è arrivato il consumo, un tempo definito «di massa», della fotografia d’autore? Ci vorrebbe una nuova Sontag per rispondere all’altezza. C’è questo infoltirsi di mostre, festival e biennali un po’ dappertutto, e anche gli editori lanciano collane e titoli come già da tempo in Inghilterra, Francia e Germania. Sparite le letture semiologiche, tengono il campo giornalisti e scrittori. La sensazione del cronista culturale è che il marketing abbia piantato la sua bandiera su un (relativamente) nuovo filone del consumismo estetico, dirottando davanti ai lightbox giganti e alle «narrazioni» di Salgado e di McCurry lo stesso pubblico che faceva la coda per gli impressionisti. La nuova parola d’ordine sembra essere «emozionarsi».
Roma merita una riflessione a parte, perché qui in particolare si rilancia una storica (e in certe epoche ambigua) etichetta: ‘fotografia e antichità’, soprattutto per iniziativa della Electa, che può contare sulla partnership commerciale con la Soprintendenza. Antichità sia come quinta espositiva per allestimenti scenografici all’interno dei siti archeologici, sia come soggetto fotografico tout court. Due mostre in corso esemplificano le ambizioni e i rischi del marketing fotografico nella caccia al format vincente. Nel primo caso – Terrantica al Colosseo, con i «volti della Terra» illustrati da Basilico, Jodice e altri – c’è ben poco da dire, se non che gli ingrandimenti curati da Roberta Valtorta appaiono al visitatore quel che in effetti sono: imbottitura, tra le vetrine e i pannelli didattici, e non certo quel che di essi si promette («immaginare la grandiosità e il mistero dello spazio fisico del mondo che l’uomo antico si è trovato ad abitare e sul quale si è interrogato, ricercando i suoi dèi e costruendo i suoi miti…»). Di segno diverso, per fortuna, è la monografica alle Terme di Diocleziano dedicata a Florence Henri – a cura del suo massimo cultore italiano, il genovese ‘Gianni’ Martini, cui si deve anche il ricco catalogo edito da Electaphoto con contributi di Elio Grazioli e altri (pp. 288, euro 40,00) –, una mostra che interseca e in qualche modo mette in frizione i due piani del discorso, archeologia e fotografia, esibendo in apposita sezione le riprese che l’artista, nata a New York nel 1893 da padre francese e madre tedesca, realizzò fra le rovine dell’antica Roma nei primi anni trenta, durante uno dei frequenti viaggi in Italia.
Cominciamo da queste inquadrature così familiari e stranianti, con torsi, piedi e frammenti di statue ritagliati in primo piano contro arcate, muri e sfondi ‘non-pertinenti’, eppure saputi, come il Foro romano, la Suburra, il Campidoglio, il Colosseo. Sono veri e propri assemblages di ascendenza metafisica, surrealista, realizzati con la tecnica del montaggio in camera oscura, cioè durante il processo di sviluppo e stampa della pellicola; e basterebbe considerare quale manipolazione subissero da parte del regime, proprio in quegli stessi anni, i fondali della Roma augustea e imperiale, per restituire a queste immagini che oggi ci paiono solo un bizzarro esercizio intellettuale persino un loro (inconsapevole?) potenziale storiografico, che in fondo non va disgiunto dal premio formale.
Campioni del collage erano all’epoca l’ungherese Moholy-Nagy e il tedesco Franz Roh, quando la fotografia, ormai promossa al livello della pittura e del cinema, veniva sottoposta a un ribaltamento espressivo e ideologico che l’allontanava dal vero naturale e dall’assoluto estetico in nome di un razionalistico e concettuale comporre. «Tutto quello che io conosco – dichiarava Florence Henri – e il modo in cui lo conosco è fatto anzitutto di elementi astratti: sfere, piani, griglie le cui linee parallele mi offrono grandi risorse, e anche specchi che sono da me usati per presentare in una sola fotografia lo stesso soggetto sotto differenti angolazioni…». Chioserà Attilio Colombo («Grandi Fotografi» Fabbri, 1983): «composizione come tentativo di andare al di là delle consuetudini visive per cercare una visione ‘oggettiva’». Komposition, composition, è in effetti la parola magica in grado di aprire mondi tra Dessau, Berlino e Parigi negli anni venti e trenta. Essa presiede alla speri-mentale produzione creativa di molte delle circa 140 stampe esposte a Roma – tutte ricavate per l’occasione dai negativi d’epoca perché la particolare ambientazione avrebbe messo a rischio quelle originali (esposte in primavera a Parigi al Jeu de Paume, nella mostra recensita su queste pagine da Maurizio Giufrè, lo scorso 8 marzo). Composizione, si intenda poi, chiama a sé una serie di vocaboli storico-artistici pregnanti che non occorre certo spiegare: cubismo, costruttivismo, metafisica, surrealismo, né va dimenticato che la Henri è stata (soprattutto) pittrice, allieva di Léger e Albers, Klee e Kandinskij, amica di Arp, Hans Richter, Iwan Puni, tutti magnificamente usciti a due dimensioni b/n dalla sua camera oscura. Da fotografa brucia una dopo l’altra differenti maniere che sono in realtà stadi della ricerca. In rapida successione: luci artificiali e composizioni astratte da banco ottico, soprattutto tra il ’27 e il ’29, per i ritratti e gli autoritratti («con sfere» il più conosciuto) denominati «allo specchio», che giocano con rifrazioni e riflessi, raddoppiamenti, piani sfalsati e incroci di linee sulla superficie (tutti prolungamenti o «supplementi» della realtà naturale, che nella lettura psicoanalitica di Rosalind Krauss confermerebbero la matrice surrealista della fotografia anni venti); invece nella serie dei nudi femminili sensuali delle «Portrait Composition», postura e maschera espressiva vengono piegate (un po’ alla Hitchcock?) al taglio e al regime dell’inquadratura, nella quale entrano di volta in volta, in funzione drammatizzante, pettini, reti da pesca, collane, carte da gioco, fiori, tendaggi. Infine Florence approda, ma solo dopo il ’37, alla luce naturale, ora catturata con la Rolleiflex che più agilmente incornicia modelle o frutta in esterni, e vedute di spiagge bretoni, assecondando le gradazioni del disco solare senza mai deflettere dalla vocazione a comporre.
Ma chi è stata la Henri sulla cui biografia aleggia la parola eclissi? Eclissi artistica dopo la stagione ruggente nei salotti e negli ateliers delle avanguardie (a Parigi posano per lei – e con lei, in diverse occasioni pubbliche e private – Robert e Sonia Delaunay, Mondrian, Arp, Villon, Nelly e Theo van Doesburg…); eclissi della prassi fotografica, perché a un certo punto smette di scattare per dedicarsi unicamente ai colori a olio e alla pittura; eclissi della sua stessa fortuna critica: nel 1975 una mostra di foto alla Galleria Martano di Torino consente a Maurizio Fagiolo di interrompere il «curioso silenzio caduto», perlomeno in Italia, su un «personaggio che negli anni Trenta è continuamente presente in mostre e riviste…». Eppur si muove. Nel 1982 Il Saggiatore traduce al volo dal tedesco Avanguardia fotografica in Germania 1919-1939 di Van Deren Coke, direttore del dipartimento di fotografia al Museo d’Arte Moderna di San Francisco: nella costellazione formatasi via via attorno alla «nuova visione» di Moholy-Nagy e Renger-Patzsch c’è anche un ritratto realizzato dalla Henri. Cito dalla scheda biografica allegata: «Nata nel 1893 a New York. Studiò dapprima musica a Berlino, ma nel 1924 i suoi interessi erano già rivolti alle arti figurative e studiava a Parigi con Léger e Ozenfant. Nel 1927 fu allieva di Moholy-Nagy e di Joseph Albers al Bauhaus e nello stesso periodo cominciò a occuparsi di fotografia. Nel 1929 ritornò a Parigi dove si specializzò in ritratti e foto pubblicitarie, senza peraltro abbandonare la pittura astratta. Dal 1963 vive a Bellival, Francia». Aggiungere a piacimento, senza tradire la stringatezza di questo genere, rimpianto, di pubblicazioni: orfana dei genitori sin da bambina; adolescente, a Roma, al conservatorio conosce Busoni che sarà suo maestro di piano a Berlino; a Berlino, dove è ancora molto intenso l’alone espressionista, frequenta lo studio di Archipenko e stringe amicizie: con i citati van Doesburg e molti altri tra cui Carl Einstein (anche amante!), il grande studioso di arte africana sodale dei cubisti.
Abbiamo lasciato Florence Henri a Bellival, nella campagna dell’Oise. Là, come dei cani da tartufo, andarono a scovarla nel 1973 ormai ottantenne due giovani galleristi genovesi, che avevano trovato su una bancarella delle sue foto pubblicate da «Stile futurista». Uno dei dioscuri è il Martini curatore di questa mostra romana, l’altro è Alberto Ronchetti, nel frattempo partito (presto) per l’Ade, perciò adesso dedicatario in epigrafe. Tornano a trovarla ogni estate nel suo cascinale per soggiorni di lavoro e amicizia, promuovono mostre (anche a New York), meritandosi in eredità, dopo la morte dell’artista (1982), l’archivio dei negativi che con tanta passione hanno infine contribuito a riordinare insieme a lei. Da Genova, dunque, partì l’onda italiana della riscoperta; presto a Milano la Lea Vergine l’avrebbe arruolata, ancora vegliarda, nel canone femminista dell’Altra metà dell’avanguardia composto tessera dopo tessera attraverso un memorabile pellegrinaggio di incontri dal vivo (1980); e adesso la scommessa romana alle Terme.
Si deve confessare, infine, che la sezione della «fortuna critica» curata nel catalogo da Paola Rosina, al netto di qualche refuso di stampa, ha scatenato una detection domestica tra libri e opuscoli. Pochi i titoli posseduti per ora (manca all’appello il Quintavalle, che a Parma ha governato una fetta del fondo Henri), tuttavia Florence salta fuori un po’ dovunque nello scaffale modernista, ubiqua come uno spiritello. È stata lei a firmare il ritratto in studio di Willy Maywald visto al Carnavalet di Parigi diversi anni fa nel corso di un omaggio al fotografo di moda (e fu il vecchio Maywald che condusse a Bellival i due ragazzi di Genova); ritratti, stavolta a Florence Henri, nelle pagine di un catalogo di Max Peiffer Watenphul, un «Deutsch-Römer del ventesimo secolo», in occasione della retrospettiva di Castel Sant’Angelo una quindicina di anni fa; ma eccola soprattutto tra gli anni venti e trenta in quelle cartoline di gruppo che ritraevano gli artisti del momento, giovani e vibranti, a Dessau come a Parigi, a casa di Mondrian, con gli esponenti del «Cercle et Carré». Deve essersi divertita parecchio, a dispetto di tutta la tensione mentale spesa nella messa a fuoco. «Entspannung durch Spannung» dicono i tedeschi.