«Solo uno scrittore mediocre è sempre al suo meglio» disse una volta l’autore britannico Somerset Maugham. Vale anche per gli artisti rock. Molte grandi star hanno rischiato la reputazione e il loro futuro per album sbagliati o che non sono stati capiti e accettati. A tradirli è stata la voglia di strafare, la stanchezza, la sensazione ingannevole di dover stare al passo con i tempi. In alcuni casi è stata l’arroganza di chi pensa di essere invincibile. In ogni sbaglio c’è sempre una lezione e molti musicisti si sono risollevati e il loro ritorno è stato più spettacolare della loro caduta. Altri hanno pagato a caro prezzo le proprie defaillance artistiche. Ma anche negli errori apparentemente più clamorosi ci può essere il lampo del genio.

Rolling Stones

Dopo l’uscita di “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” il rock non era più quello di prima. L’opera dei Beatles, uscita nel giugno del 1967, aveva alzato l’asticella. I dischi rock erano diventati album, la creatività non aveva più confini, le vecchie canzoni di tre minuti sembravano ormai destinate a diventare modernariato. Fu un terremoto culturale sotto le cui macerie rischiarono di finire nientemeno che i Rolling Stones. Jagger, Richards e soci provarono maldestramente a rispondere al colpo dei Fab Four lavorando su un album che oggi è ricordato come il loro più clamoroso passo falso. “Their Satanic Majesties Request” uscì nel dicembre del 1967 e cercava di cavalcare l’onda della psichedelia e delle sperimentazioni sonore. Le canzoni dell’album erano nate da un lavoro in studio frammentario e disorganizzato, i Glimmer Twins stavano affrontando una serie di vicissitudini legali dovute a un loro arresto per detenzione di droga. Non fu incaricato nessun produttore, le session di incisione furono anarchiche e spesso popolate di ospiti variopinti. «Ogni giorno nello studio era una lotteria capire chi sarebbe venuto e a fare cosa» disse Bill Wyman. Il disco fu un modesto successo commerciale e un completo fallimento artistico. Rischiò di mandare in bancarotta la credibilità artistica della band che venne additata come un gruppo di imitatori. «C’è un sacco di spazzatura su Satanic Majesties. Troppe droghe, nessun produttore a dirci “Adesso basta”» ha confessato Jagger. «Un ammasso di schifezza» ha chiosato Richards. Il disco non ha neppure subito la classica rivalutazione che il tempo regala a molti sbagli artistici. Dodici mesi dopo gli Stones pubblicarono il classico “Beggars Banquet”. Si dimenticarono le mode, i Beatles e dimostrarono di non dover vivere nell’ombra di nessuno: “Sympathy for the Devil”, “Street Fighting Man”, “Stray Cat Blues”. C’è altro da aggiungere?

Neil Young

Un artista prolifico e fuori dagli schemi come Young di passi falsi ne ha collezionati parecchi. Ma alla fine la sua bilancia penderà sempre dalla parte della grande musica. Per molti artisti emersi negli anni ’60, gli ’80 furono un periodo difficile. Il rocker canadese, aveva perso il grande appeal e pensò che fosse venuto il momento di sperimentare con sintetizzatori, elettronica, sonorità nuove e marchingegni come il synclavier e il vocoder. Nel dicembre 1982 diede alle stampe Trans. Le canzoni erano state prima incise con i fidati amici dei Crazy Horse, ma all’insaputa di tutti, Young aveva rimosso molte parti suonate dalla band e utilizzato per l’edizione finale i suoni rielaborati elettronicamente. Il disco fu un fallimento spettacolare. L’anno seguente la casa discografica, la Geffen, intentò addirittura una causa per danni a Young, reo di avere inciso di proposito un disco tanto brutto da non essere vendibile. La vera sorpresa viene però dal riascoltare oggi quel disco. Neil si ispirava ai tedeschi Kraftwerk e sembrava guardare oltre. “Computer Age”, “Sample And Hold”, “Mr. Soul” e “Transformer Man” sono brani che riascoltati sembrano uscire dalla discografia dei Daft Punk e di tanti artisti alla moda, ritenuti oggi all’avanguardia. Neil aveva visto lungo e nessuno se ne era accorto.

Terence Trent D’Arby

Quando uno svarione artistico capita a un grande nome, il passato glorioso lo tiene a galla. Quando capita a un giovane, la caduta può essere senza ritorno. Era il 1987, il 25enne Terence Trent D’Arby esordì con l’album “Introducing the Hardline According to”. Fu un disco da 12 milioni di copie vendute, che lo consacrò come star internazionale. Un lavoro di straordinaria classe, una collezione di hit che scomodò paragoni che si riveleranno macigni sul suo futuro: Stevie Wonder, Sam Cooke, James Browne, Prince, Brian Wilson. Il suo talento era proporzionale alla sua presunzione. Durante un concerto disturbato da un temporale disse: «mi dispiace per la pioggia, ma adesso chiedo a mio padre di farla smettere». Il ragazzo si era montato la testa. Credendosi il nuovo messia del soul, si mise al lavoro su un nuovo album, scrivendo canzoni, suonando quasi tutti gli strumenti e curando di persona gli arrangiamenti. Nel 1989 tornò sulle scene con un disco sciaguratamente intitolato “Neither Fish nor Flesh” (né carne né pesce). Fu un triste presagio. Stroncato dai critici, trascurato dalle radio e dal pubblico, il nuovo lavoro fu la pietra tombale della carriera di D’Arby che da allora ha inciso poco e male e dal 2000 ha cambiato anche nome. Oggi si chiama Sananda Francesco Maitreya, ha sposato un’attrice italiana, vive a Milano e pubblica musica senza una casa discografica. I suoi figli si chiamano Francesco Mingus e Federico Elvis. Solo per questo merita di tornare a essere una star.

Lou Reed

Il grande e compianto Lou Reed non si è mai fatto sfuggire una sfida. Dalla Factory di Andy Warhol al glam rock, Lou non aveva certo paura di cambiare e di seguire le mode o di rifiutarle. Nel 1975 provò a rovinarsi la carriera con il feedback lancinante di “Metal Machine Music”, ma alla fine la sua provocazione venne recepita come tale da molti e da alcuni giudicata addirittura geniale (vedi Alias del 23 luglio 2011). La sua credibilità venne in realtà messa alla prova nel periodo di suo maggior successo commerciale. Negli anni ’80 Reed, ripulitosi da alcol e droghe, inanellò una serie di album piacevoli, ma privi della sua poetica e della sua arte. La svolta gli aprì le porte degli spot pubblicitari a cui cedette la propria musica e lo fece conoscere a un pubblico nuovo, mettendolo in sintonia con gli adolescenti che vivevano incollati a MTV. “Legendary hearts” del 1983 e “New Sensations” del 1984 presentavano un rocker che sembrava aver dimenticato i tormenti della “Wild Side” e inseguiva un pubblico più giovane e disimpegnato, una svolta riassunta perfettamente dal singolo pop-dance “My Red Joystic”. Nel 1986 questo percorso toccò il fondo con l’album “Mistrial”, che anche dai fan più convinti è ritenuto il suo disco meno rappresentativo e quello con cui rischiò di giocarsi definitivamente la faccia. Anche riascoltato oggi il lavoro appare come una mediocre divagazione nello spento rock radiofonico anni ’80 con arrangiamenti datati e testi innocui. Reed si cimentava persino, con esiti non esaltanti, come rapper nel singolo “Original Wrapper”. Dove era finito il poeta maledetto di “Heroin”? Se lo chiesero in molti. Un giornale musicale inglese sentenziò la fine del mito: «E’ ormai un vampiro senza denti sul viale del tramonto». Come spesso accade agli spocchiosi recensori inglesi, la previsione fu tragicamente sbagliata. Tre anni dopo Lou tornò a cantare le storie ai margini della società e pubblicò il capolavoro «New York».

Billy Idol

Il più letale concept album della storia. Billy Idol era una vera icona del pop rock anni ’80. Aveva un background da punk autentico. Era appartenuto alla scena inglese agli inizi della rivoluzione, aveva frequentato Siouxsie Sioux, era stato parte del Bromley Contingent (i primi fan dei Sex Pistol) e aveva militato nei Generation X. Consumatasi la prima fiammata di quella ondata, furbescamente, comprese che ripulendo il punk dalle sue violenze e rivendendolo alla neonata generazione di MTV si poteva diventare delle star. E’ quello che fece. All’alba degli anni ’80 si trasferì in pianta stabile negli USA e si diede a una carriere solista debuttando con un singolo dei Generation X “Dancing with myself”, riattato in versione dance e radiofonica. Approdò a un album solista nel 1982 e iniziò a farsi notare come l’artista che riusciva a vendere (o svendere) il punk nell’era dei videoclip. L’anno dopo uscì il disco della consacrazione, “Rebel Yell”: milioni di copie vendute e copertine di tutte le riviste per teen-ager. Passò sulla cresta dell’onda l’intero decennio. Nel 1993 Idol capì che i tempi stavano cambiando, ma sbagliò i calcoli. Pensò che fosse giunta l’ora di dare una svolta avveniristica alla musica e cavalcare l’incombente rivoluzione di internet e dell’elettronica di massa. Pubblicò “Cyberpunk” disco a tema che voleva essere il Blade Runner del rock, una (nelle intenzioni) avveniristica opera in cui il rock doveva preparasi al terzo millennio. Fu un catastrofico flop: suoni elettronici da modernariato, effetti sonori da videogiochi e canzoni banali o inascoltabili. La raccolta conteneva inoltre la peggior cover mai concepita di “Heroin” dei Velvet Underground (con innesti di “Gloria” di Patti Smith). A quell’epoca i fan del pop si erano innamorati del rap e dell’R&B, quelli del rock si erano dati al grunge. “Cyberpunk” venne dileggiato e segnò la fine della carriera di Idol che per dodici anni non incise musica. E’ ritornato nel 2005 con un album passato inosservato. Nel 2006 ha pubblicato “Happy Holidays”, un disco di canzoni natalizie.

Bruce Springsteen

Ebbene sì, anche se dopo 40 anni di rock riempie ancora gli stadi di tutto il mondo, pure il Boss nella sua carriera è inciampato. La sua caduta non è stata rovinosa come per altri, ma c’è stata. Non fu la cupa solitudine di “Nebraska” con le sue storie disperate a mettere in crisi la sua fama. Anzi, quel disco inciso in solitaria nel 1982 fu, in confronto alle attese, un sorprendente successo commerciale e fu un trionfo artistico che rafforzò lo status di autore di Springsteen. La buccia di banana della carriera di Bruce fu l’accoppiata “Lucky Town” e “Human Touch”. Pubblicati lo stesso giorno nel marzo del 1992, gli album erano il frutto di un lavoro in studio senza i fedeli pretoriani della E Street Band. L’assenza dei compagni di strada portò Springsteen a cercare nuovi percorsi sonori. “Human Touch” è un album molto influenzato dal soul e dalla musica nera con testi romantici e sentimentali, un piglio ottimista e presenze eccellenti come Randy Jackson, Jeff Porcaro, Sam Moore, Bobby Hatfield e Bobby King. “Lucky Town” è un disco più ruvido con un suono più scarno e anche alcune canzoni impegnate. Invece di fare un album doppio come “The River”, Springsteen e la sua casa discografica optarono per la pubblicazione di due dischi separati in contemporanea sull’esempio (altro errore) di “Use Your Illusion” dei Guns’N’Roses. I fan rimasero delusi. Le canzoni belle non mancavano, ma mancava la forza della E Street Band e Springsteen sembrava per la prima volta poco convinto e senza carisma. Non aiutò il fatto che in quei mesi il mondo musicale stava assistendo all’esplosione del grunge e del rock alternativo. La nuova patria del rock americano era diventata Seattle e il New Jersey sembrava acqua passata. I due dischi vendettero molto meno di quanto previsto, il tour successivo, sempre senza i fratelli della E Street Band, lasciò per la prima volta qualche spettatore insoddisfatto. Il Boss ironizzò sul supposto insuccesso dei dischi «li vedo scivolare via dalle classifiche!» disse a Rolling Stone, ma andò avanti per la sua strada. Nel 1995 pubblicò “The ghost of Tom Joad” in cui non inseguiva le mode, ma si ispirava a John Steinbeck. La E Street Band fu richiamata in servizio nel 1999 e tornò ad essere uno dei migliori live show nel mondo del rock. Uno dei momenti più belli di quel tour era la versione corale di “If I should fall behind” cantata da tutti i membri del gruppo. Un brano, tratto da “Lucky Town”, che sembrava non aver lasciato il segno e ritornava in vita grazie ai vecchi amici.

U2

Superati i 35 anni i membri degli U2 si accorsero di essere sufficientemente vecchi per credersi davvero giovani. Con una decisione che oggi appare tanto curiosa quanto inspiegabile, decisero di reinventarsi come popstar usa-e-getta producendo un disco di dance e elettronica. Con “Pop”, pubblicato nel marzo 1997, il quartetto scelse di darsi alla futilità un po’ per sfida un po’ per il gusto della provocazione. Buone forse le intenzioni, pessimo l’esito. Bono e soci già con “Achtnung Baby” si erano rivelati istrionici e trasformisti, ma non erano esattamente David Bowie e il cambiamento camaleontico e la scelta di affondare il loro rock in arrangiamenti elettronici sembrava forzata se non fuori luogo. Particolarmente imbarazzante fu il singolo Discoteque con un video in cui The Edge scimmiottava tristemente Tony Manero. Il gruppo che a vent’anni cantava della guerra in Irlanda e del sacrificio di Martin Luther King alle soglie della maturità scopriva come nuovi profeti i Village People. A peggiorare le cose il disco arrivava dopo il debole “Zooropa” e lo sperimentale e trascurabile “Original Soundtracks 1” (dato alle stampe, per prudenza, con il nome The Passenger). Una striscia negativa che mise in difficoltà la loro carriera e la loro reputazione. Ma gli U2 sapevano fare ancora il loro mestiere il tour seguente fu un successo. Tornarono su disco solo tre anni dopo con “All That You Can’t Leave Behind”. I lustrini e le luci strobo erano scomparse. Disse Bono «Ci ricandidiamo per il lavoro. Quale? Quello di miglior rock band del pianeta». L’adolescenza ritardata della band era finita.

Garth Brooks

La sua fama non ha mai varcato neppure di un centimetro il confine degli Stati Uniti, ma l’eroe del country pop Garth Brooks è uno degli artisti più di successo nella storia della musica, avendo venduto nella sua carriera quasi 70 milioni di dischi. Nel 1999 dopo una serie di album di country tradizionale andati a ruba, Brooks cercò di dare una scossa alla sua carriera dorata e reinventarsi come rocker alternativo, vestendo i panni dell’alter ego Chris Gaines. Era una sorta di Ziggy Stardust per gli stati della corn-belt, ma i fan del country, non certo amanti delle novità, non capirono né apprezzarono. L’album uscì con il titolo “Greatest Hits”, ma ben presto venne ribattezzato “Garth Brooks in…. The Life of Chris Gaines”, il vero nome dell’artista era diventato indispensabile per evitare il disastro. Chris Gaines, che nell’idea della star doveva diventare il personaggio anche di un film, ritornò velocemente nell’oblio da cui era venuto. Garth Brooks non si è mai più tolto il cappello da cowboy.

Chris Cornell

Quando un rocker puro si dà al pop elettronico non è mai un buon segno. Ma a volte va anche peggio. E’ il caso di Chris Cornell eroe del grunge e leader dei Soundgarden e degli Audioslave che nel 2009 cercò di rilanciare una carriera solista zoppicante mettendosi al servizio del produttore Timbaland, specializzato in hip-hop e musica dance. L’esito della loro collaborazione fu “Scream” in cui Cornell sembrava inseguire Michael Jackson. Nell’album non funziona nulla. Cornell sembrava fare un lavoro che non gli apparteneva e le canzoni erano, quando non fastidiose, noiosissime. Il disco fu atteso con un misto di apprensione e curiosità. Debuttò nella top ten degli album più venduti negli Stati Uniti. Ma dopo che la gente iniziò ad ascoltarlo nessuno ci investì più un dollaro. La seconda settimana l’album precipitò di 55 posti in classifica. Una caduta così rovinosa non si vedeva da anni. Trent Reznor dei Nine Inch Nails, uno che di sperimentazioni elettroniche se ne intende, descrisse il lavoro con una sola parola: “Imbarazzante”. Cornell mise prontamente da parte le ambizioni da solista e ha riformato i Soundgarden. Non tutti i mali vengono per nuocere.