Una carriera che ha da poco passato la soglia dei dieci anni, e in gran parte fatta di dura gavetta, cinque album, diversi cambi di line up. Gli italiani Fleshgod Apocalypse sono riusciti a raggiungere un invidiabile traguardo. Essere la terza rock band nella storia della musica italiana a entrare nella classifica generale degli album più venduti negli Stati Uniti. Gli unici precedenti sono stati la Pfm negli anni ’70 e una band heavy metal come loro, i Lacuna Coil.
Non li avete sentiti per radio, né li vedrete ospiti d’onore a qualche talent, i Fleshgod Apocalypse sono un gruppo di metal estremo e fanno parte di una scena che conserva i connotati di un movimento underground, ma ha numeri e appeal internazionale più di tanto pop. Il loro ultimo disco, intitolato Veleno, inciso a Roma, pubblicato dall’etichetta tedesca Nuclear Blast e distribuito dalla Warner, è un album in cui la ricetta di potente death metal della band si sposa con arrangiamenti sinfonici e operistici che attenuano l’aggressività del genere, evidenziando epicità e un’eleganza classica. È, a quanto risulta, il primo disco death metal in cui venga recitata una poesia di Leopardi (La ginestra nel brano Embrace the Oblivion).

Francesco Paoli, il frontman, chitarrista e batterista dei Fleshgod Apocalypse 

L’EREDITÀ
«Veleno è un disco contaminatissimo – spiega Francesco Paoli il frontman, chitarrista e batterista della band – in cui abbiamo voluto mantenere un’eredità artistica italiana e abbiamo voluto esplorare cose nuove anche dal punto di vista tematico. Sotto molti aspetti non è quindi un disco rigorosamente death metal e questo ci aiuta a raggiungere senza dubbio un pubblico più ampio. La nostra matrice è comunque quella: l’energia, la voglia di riscatto e la ribellione che alla fine ci hanno sempre affascinato di questo genere sono rimaste e, quando si manifestano, cerchiamo di esprimerle nel modo più puro».
La lineup ufficiale del gruppo è composta anche dal bassista Paolo Rossi e dal pianista Francesco Ferrini. Come membri aggiunti nei live, dove all’aspetto musicale si aggiunge una marcata teatralità, ci sono Veronica Bordacchini, una voce soprano, Fabio Bartoletti alle chitarre e David Folchitto alla batteria. La loro storia comincia dalla provincia italiana.
«Iniziammo all’epoca delle scuole superiori io e Paolo (Rossi) – racconta Paoli -. Io sono originario di Terni e lui di Perugia. Città lontane da un grande centro musicale come Milano, e distanti da Roma, più che geograficamente, artisticamente, visto che nella capitale non c’era una vera scena per il genere che volevamo suonare. Da parte nostra c’era una gran voglia di riuscire e ci siamo detti ’proviamoci!’. Non fu facile all’inizio trovare persone che avessero la stessa nostra determinazione e che capissero che la chiave per emergere non era solo avere materiale di qualità, ma era anche la volontà di sacrificarsi in termini di tempo, fatica e soldi. Questo significava prima di tutto guardare all’estero perché in Italia era impossibile iniziare una carriera. Abbiamo così caricato gli strumenti in macchina e abbiamo iniziato a suonare in giro per l’Europa vendendo il merchandising e andando in pari con le spese. Nel frattempo c’è chi faceva l’operaio, chi stampava volantini, chi dava lezioni private. Questo ci ha permesso di fare esperienza, di conoscere persone e di farci notare dalla Nuclear Blast, l’etichetta indipendente metal oggi più importante a livello internazionale. In quel momento ci siamo resi conto che tutto questo poteva funzionare. Il nostro piano B era diventato il piano A».
Con il marchio Nuclear Blast sono usciti tre album dal 2011 al 2016, l’ultimo di questi King li ha portati a diventare un nome riconosciuto nella scena metal internazionale, consolidato da un’incessante attività dal vivo.
«In otto anni abbiamo fatto circa mille concerti. 11 tour americani, una marea di date in giro per il mondo: Sudafrica, Giappone, Australia, Cina, India, Indonesia tutto il Sudamerica e il Centro America, tutta l’Europa… suonando però pochissimo in Italia».
La difficoltà di suonare dal vivo materiale originale accomuna tutti i giovani artisti italiani, dalle rock band ai cantautori…
L’INDUSTRIA MUSICALE
«È un problema di industria musicale – chiarisce Paoli -. Non c’è interesse nell’investire nella musica underground o in scene musicali di qualità in cui però c’è un grosso margine commerciale. L’idea è quella di guadagnare tanto subito, di organizzare grandi eventi, spesso rischiando. Costruendo però una scena che funziona, alla fine la somma di tutti i concerti crea lavoro, profitti, crea affezione e permette a tutto il movimento di crescere. È quello che è accaduto negli altri paesi. Non è una questione di gusti o cultura musicale. Gli altri paesi non sono migliori di noi in questo. È una questione di mentalità e di scelte imprenditoriali. Si insegue un mainstream che però alla fine dei conti, al di là di quei grandi nomi che hanno messo via un gruzzolo e possono rischiare, porta solo perdite. Se non costruisci una scena supportata da appassionati che comprano ancora le copie, vengono ai concerti, seguono gli artisti, tutto diventa un gratta e vinci. Non puoi scommettere tutto su un grande festival estivo se non alimenti un movimento tutto l’anno. Ti può andare bene una volta, ma poi chiudi perché in questi casi gli investimenti sono enormi». Il percorso però non è mai facile e per la band umbra, ormai affermata, la genesi di questo ultimo album è stata tormentata. Due membri storici della band, Cristiano Trionfera e Tommaso Riccardi, hanno lasciato il gruppo.
DISAVVENTURE
Altri ritardi e imprevisti hanno ritardato il lavoro, fino a un furto un anno e mezzo fa di tutta la strumentazione durante un tour in Svezia. Racconta Paoli: «Sapevamo di avere una scadenza e di dover completare un nuovo album. Tutta una serie di circostanze ha fatto sì che il nostro lavoro ogni volta ripartisse da zero. Ma a ogni imprevisto io e Francesco (Ferrini) creavamo idee e spunti che sono tutti confluiti in questo disco. Il risultato è un lavoro super-spontaneo, carico di tutte le emozioni che abbiamo vissuto in questo periodo. È per questo che è un disco così vario, così intenso e diretto. È stato un modo diverso di comporre, ma ci siamo accorti che il caos ha prodotto qualcosa di nuovo che ha appassionato e sorpreso gli ascoltatori».
Veleno, uscito lo scorso maggio, è entrato anche in classifica in Germania, Francia e nelle charts indie e rock del mercato britannico.
«È una grande soddisfazione – confessa Paoli – un modo di essere ripagati per i sacrifici e ci dà nuove prospettive per il futuro. È anche frutto della totale libertà artistica che ci ha concesso la casa discografica. Hanno ascoltato il disco solo quando il master era pronto e si sono accorti dell’ottimo potenziale. Così si è pensato di pubblicare un singolo, Sugar, e di pianificare un’edizione in vinile e una special edition che uscirà a ottobre».
Ora i Fleshgod Apocalypse sono attesi a una lunga serie di date live in giro per il mondo, un tour che ha già anticipato l’uscita dell’album.
«A marzo – dice il cantante – abbiamo fatto il nostro primo concerto da headliner sold out a New York al Gramercy Theatre e abbiamo fatto diversi sold out in tutto il nord America, con una media di più di mille spettatori a concerto. Bei numeri per un gruppo underground, anche perché avevamo un album ormai vecchio di tre anni e, per colpa degli imprevisti nella lavorazione del disco, di nuovo avevamo solo un singolo».
L’approccio a questa musica varia da nazione a nazione: «In Brasile – prosegue Paoli – il pubblico è incontenibile, in Giappone hanno un ascolto attento, quasi accademico anche se sanno perdere il controllo, il pubblico più abituato a questi concerti, come ad esempio quello tedesco, è più distaccato finché non entra in sintonia con la band». La fama in Italia può attendere: «Viviamo tranquilli – conclude – e ci godiamo un successo professionale all’estero. Siamo contenti così».