Lunedì. Esterno giorno. Entro in fissa che voglio trovare delle forbici adatte a tagliare i capelli ai miei due uomini che stanno diventando sempre più indomiti in quanto a chiome (forse non solo). Se potessi farmi crescere delle cesoie al posto delle dita della mani come in Edward mani di forbice (Tim Burton, 1990) sarei a posto. Invece. Nella farmacia sotto casa per una forbice da parrucchiere mi chiedono 35 euro che mi pare un po’ troppo per un unico tentativo di taglio (tagliai i capelli al mio migliore amico negli anni del liceo: ero alquanto alterata – e lui pure – e la forbice – chissà se allora ne avessimo una adatta – scappò su una zona del cranio che si sfoltì un po’ troppo e il mio amico decise di portare una coppola in testa per qualche mese fino alla ricrescita dei capelli). Mi avventuro più lontano, mi hanno detto che è aperto un casalinghi molto rifornito.

METTERE il naso fuori un po’ più di prima è strano. Anche se non è cambiato molto. Ma dentro si: dentro siamo inquieti, incavolati, pieni di ansie e di rabbia non espressa. Svolto l’angolo e da dietro intravedo mio padre, in effetti questo è il suo territorio: curvo a quel modo non può essere che lui. Sono intabarrata in un impermeabile-scafandro chic rosa ciliegia dai piedi alla testa. Indosso ligiamente la mascherina. Mio padre sta andando dal giornalaio dove dal lato della cabina si fa dare i giornali, per non entrare nella zona coperta dell’edicola. Nel tratto di strada che percorro lui fa in tempo a prendere i quotidiani, cambiare direzione e venirmi incontro col bottino sotto braccio. Da lontano gli dico: «Solo tu puoi camminare così». Lui sorride, si ferma, mi parla ma – poi capisco – non mi riconosce. Mi spoglio del cappuccio e scosto la mascherina: «Sono tua figlia». Mi fa una battutaccia sulla ricrescita della ciocca bianca. Confessa di non avermi riconosciuto. Il Dna non ha vinto stavolta. 4.458 passi.

Martedì. Interno giorno/sera/notte mai varcata la soglia di casa. Richiusa la porta a chiave dopo averla aperta (altri di casa sono usciti). 354 passi.

Mercoledì. Esterno giorno. Ci si incontra: questa è la grande differenza che gratifica il cuore e la vista, sebbene il tatto non possa rientrare in questi connotati di distanziamento sociale, anzi ne sia il principale accusato. Ci si incontra in fila davanti al forno buonissimo. Davanti al supermercato biologico dai prezzi salati e dai prodotti di qualità. Ci si incontra nella strada che conduce alla piazza del mercato dove qualche banco ha riaperto e ci sono le barriere fatte con quello scotch rosso e bianco che usano per isolare le zone degli incidenti.

IL CLIMA   umano è vario; chi alza la voce e si infervora nel racconto di chissà cosa facendo capannello relativamente distanziato, chi sta senza mascherina né guanti ma si fa i fatti suoi e gira l’angolo in pace con sé stesso, chi saluta tutti col sorriso, pure quelli che non conosce perché gli fa allegria. Fa grande gioia vedere la libreria aperta, la piccola oasi di cultura rinasce dalle sue ceneri ad abbellire la piazza illuminandola di vita e di storie. Provo a entrare ma c’è già una persona dentro e la titolare, cara amica, non è presente al momento. Passerò un’altra volta (il concetto di un’altra volta per tanto tempo messo a tacere o addirittura dimenticato). La foto che posto sui social della vetrina aperta fa il giro d’Italia in poche ore.

RESISTERE. Dobbiamo prendere esempio e resistere. Ognuno a suo modo. Molti cani, troppi cani: chi si era mai accorto che così tanta gente avesse un cane?Rivedi le persone sotto una nuova luce. La mascherina dona. Chi avevi sottovalutato ci ripensi e dici: «Chissà come mai una storia con lui non l’ho mai avuta». (Non deve essere un caso che in questo periodo si siano riaffacciate in un modo o in un altro personaggi dimenticati nel tempo con cui in qualche modo c’era stato qualcosa ma nulla di concreto: si fanno i conti, ogni lasciata è persa, si vive ogni giorno come fosse l’ultimo, come declamano molti film come fosse oro colato. A me fa pensare piuttosto a quello strano film canadese (Starbuck, Ken Scott , 2011) sui figli nati da donazione di sperma a pagamento e che, una volta cresciuti, si rifanno vivi con la clinica e vanno alla ricerca del padre biologico che, da single cazzone quale era, diventa padre di 553 figli di ogni età genere e numero (l’America ne fece subito un remake – Delivery man – con Vince Vaughn, diretto sempre da Ken Scott, 2013). 4.736 passi


Giovedì. Esterno giorno. Terza uscita in quattro giorni. Oggi l’incontro fuggiasco è in libreria, perché questa settimana hanno riaperto cartolerie e librerie e noi ci diamo appuntamento alla più bella di tutte, quella che ho frequentato assiduamente dai vent’anni, nella storica piazza del mercato. Ogni volta che esco durante questa maledetta quarantena allieto la passeggiata con musica nelle cuffie (un’attività che mi ricorda quando ero ragazza: mai dimenticata la fantastica scena del ragazzo col walkman durante Il tempo delle mele – Claude Pinoteau, 1980 – che sente musica diversa dagli altri alla festa – «Il rock è forte e non la vostra merda di disco!» – e che dice una frase antipatica su Joelle, appena arrivata, mentre gli amici hanno tolto la musica del giradischi e solo lui non sa di starle urlando insulti mentre tutti lo stanno ascoltando).

STARE IN MEZZO alla carta stampata regala fortissima la sensazione di tornare a vivere, stare in mezzo alle storie degli altri vuol dire che ci saranno sempre altre storie, una dentro l’altra come delle matrioske preziosissime che vanno maneggiate con cura, come fossero di cristallo, perché ognuna possiede una storia importante, che insieme alle altre che già sappiamo e a tutte quelle che ancora leggeremo, formano il nostro bagaglio culturale, la valigia dei sogni che ci consente di possedere il passaporto di tutti i luoghi del mondo, anche restando tra le quattro mura domestiche. Compro quattro libri, uno per mio marito che oggi è il nostro anniversario, uno per mio figlio, uno per me, uno per tutti e tre (Henry David Thoreau, Io cammino da solo). 3.981 passi.

Venerdì. Interno giorno. Sogno pazzesco di tanta gente per strada, tutta che si sente in diritto di esserlo, tutta senza mascherina. Anch’io sono senza e non capisco, ci provo ma niente, non capisco se è tutto finto o tutto vero, se è possibile che sia davvero finito tutto: Truman show (Peter Weir, 1998). Allora esco e vado a controllare.

ESTERNO GIORNO.Terzo giorno consecutivo che esco. Mi pare brutto, che non si fa, mi sento in colpa come quando fai le marachelle a scuola (ma che abbiamo un Maestro bastardo che dall’alto ci regola? Mi ribello!). La mia amica ieri al ritorno a casa si è sentita male, troppa aria, troppo movimento, troppa tensione nel temere di avere infranto l’area perimetrale che le spettava. Dovremo re-imparare a camminare come infantitimorosi del nuovo territorio da esplorare a due zampe, invece che carponi come prima. Torniamo bambini e con questa regressione però riacquistiamo forza e coraggio, incoscienza e arditezza: torneremo bambini e Torneranno i prati (Ermanno Olmi, 2014).

Cammino allo sbaraglio, senza percorsi sicuri già tracciati, vado libera, per la prima volta, di nuovo. In barba alle multe, ai divieti, ai limiti. Che mi fermino: ascolto Gianna (Rino Gaetano, 1978): «Ma la notte la festa è finita, evviva la vita, la gente si sveste, comincia un mondo, un mondo diverso, ma fatto di sesso, chi vivrà vedrà»… 6.532 passi.