Se si osserva la «musica d’arte» degli ultimi settant’anni come se fosse un paesaggio, ci si accorge subito, al primo sguardo, di una curiosa assenza, di una mancanza che mette un po’ a disagio. Come se dalle crete senesi qualcuno avesse cancellato i calanchi o dalle Murge pugliesi le gravine. E ciò che manca, o sembra mancare, è un elemento fondamentale del paesaggio sonoro: la voce, la voce umana. Lo sostengono anche i musicologi togati: tutti o quasi concordi nel sostenere che la Nuova Musica degli anni Cinquanta e Sessanta abbia fatto tabula rasa del passato, relegando la voce a uno strumento vetusto: troppo legato agli automatismi della musica tonale e post tonale, poco funzionale alla creazione utopistica del «suono nuovo». È proprio così? È proprio vero che l’epoca del molteplice, dalla serialità integrale e dello spettralismo, dalla neo semplicità e del neo espressionismo, dall’alea e dell’elettronica abbia cancellato la voce dal proprio vocabolario?

Partiamo dai numeri, che è sempre un buon metodo. B.R.A.H.M.S, il database sulla musica «contemporanea» compilato e aggiornato ogni mese dall’Ircam di Parigi, rivela che le composizioni pubblicate tra il 1948 e il 2020 in cui è prevista la presenza della voce sono 10.225 su un totale di 39.944. Vuol dire che oltre un quarto delle opere composte tra la seconda metà del XX secolo e i primi due decenni del XXI sono destinate alla vox humana. Ben più di quelle pensate per il violino e inferiori soltanto a quelle che vedono al centro lo strumento principe, il pianoforte. Dunque, nella pratica della scrittura la voce ha continuato e continua a cantare anche nell’universo apparentemente ostile della musica del nostro tempo. Del resto perché mai sarebbe dovuto accadere il contrario? La voce, di per sé, non induce nei compositori alcun condizionamento specifico. Sarebbe come dire che il violino, a causa delle sue proprietà organologiche, ha creato una lingua comune tra compositori di diversa epoca e stile: il violino, la voce, il clarinetto, l’arpa sono e rimangono, letteralmente, «strumenti». Niente di più.

Semmai è vero l’opposto: la voce umana – come dicono gli antropologi – possiede un bassissimo grado di specializzazione: non svolge cioè alcun compito che esiga un elevato livello di competenza tecnica. A differenza degli arti, della vista, dei capelli, della pelle (e dello stesso udito) attraverso la voce l’essere umano compie funzioni diversissime: produce fonemi inarticolati, dunque grida, sussurra, avverte di un pericolo, ma intona anche suoni ad altezza determinata e dunque canta e infine pronuncia fonemi dotati di senso, dunque parla. La voce è al tempo stesso, dall’alba delle civiltà umane fino a oggi, phonè, melos e logos ossia suono, canto e discorso. E dunque è lo strumento capace di offrire chances pressoché illimitate all’epoca del molteplice: dal regno del razionale a quello dell’irrazionale. A patto ovviamente di non rinchiuderla nel recinto dei generi tradizionali: l’opera, l’oratorio, la cantata. Il corpo nel quale abita la voce sì, soffre dei suoi legami col passato, ma il sangue che scorre nelle sue vene è ancora giovanissimo. Forse perché la voce possiede anche un altro straordinario carattere: per un verso appartiene al corpo, anzi è essa stessa una parte del corpo.

Una parte strana, però, che a differenza degli altri organi interni come il cuore, il fegato, le corde vocali, non puoi vedere in alcun modo: produce suono, senza bisogno di essere toccata, ed è oltre tutto invisibile. Ce n’é abbastanza, insomma, per farne un oggetto duplice, ambiguo, indefinibile: fisico, ma al tempo stesso metafisico. Al quale, non a caso, tutte le civiltà storiche attribuiscono poteri incantatori, ipnotici o taumaturgici: la voce di Orfeo, la voce dello sciamano, la voce delle Sirene possiedono, per loro stessa definizione, un irresistibile potere magico e incantatorio. E non è forse dalla radice dell’incanto che cresce l’albero altissimo del canto?