La riforma fiscale può aggravare le disuguaglianze o, viceversa, introdurre una maggiore equità distributiva. Può rinsaldare il blocco politico e sociale che lega l’economia alla buona salute delle imprese private o affidare allo Stato la cura degli interessi collettivi e di una società solidale e inclusiva.

Fisco e welfare sono strettamente intrecciati, e sarebbe sbagliato consegnare la riforma ai tavoli tecnici. Con la fine dell’emergenza pandemica la questione di chi paga il conto è destinata a diventare centrale, non solo in Italia. Ha suscitato clamore la notizia che, negli ultimi 15 anni, i 25 americani più ricchi hanno pagato un’aliquota reale del 3,4 per cento. L’argomento, caro ai liberisti, che l’arricchimento di pochi finisce con l’irradiarsi su tutti gli altri, non basta più. Anzi, è un falso. Se n’è reso conto anche il presidente americano, Joe Biden, che ha indicato l’obiettivo di una tassa minima globale sulle multinazionali, «almeno al 15 per cento», che ha posto in primo piano la lotta ai paradisi fiscali, che ha deciso di aumentare la pressione fiscale sulle grandi imprese degli Usa. E’ una svolta gravida di conseguenze, che apre scenari nuovi.

All’apice del suo sviluppo tecnologico, il capitalismo ha accentuato, come non mai, il processo di concentrazione della ricchezza. Ha aggravato disuguaglianze sociali e territoriali. Ha creato una nuova casta, differenze di censo, privilegi mai visti nella storia. Ha generato nuove forme di asservimento, per alcuni versi peggiori di quelle esistenti nel medioevo. Eppure, più di due secoli fa, la borghesia liberale, per affermarsi, conduceva dure battaglie contro l’antico mondo degli aristocratici, contro le differenze di nascita, contro la famiglia patriarcale.

Il fisco è l’arma più efficace a disposizione per correggere la tendenza «naturale» all’accumulazione smisurata di ricchezze da parte di una minoranza che detiene il controllo dei mezzi di produzione e distribuzione. Risulta evidente l’incompatibilità della situazione attuale, caratterizzata da profonde e crescenti disuguaglianze, con condizioni favorevoli alla coesione sociale e allo sviluppo sostenibile. Ecco perché la ripartenza post-pandemica non può ridursi al problema dei tempi e dei modi di attuazione del Pnrr. La «ricostruzione» non può essere la riproposizione di quello che c’era prima. Le stesse innovazioni tecnologiche e la transizione ecologica, in questo contesto, possono accentuare, anziché mitigare, le disuguaglianze.

La riforma fiscale diventa (deve diventare) il terreno principale di scontro tra chi intende privilegiare la «continuità» dell’attuale ordine economico e sociale e chi, invece, si pone in un’ottica di cambiamento. Quanti nel Pd, in modo strumentale e fuorviante, propongono una federazione da Forza Italia a Leu, passando per Italia viva e Azione, sono reticenti sui contenuti che dovrebbero tenere insieme questo rassemblement. Si capisce solo che lavorano per tagliare i ponti con i 5 stelle e per ancorare il Pd ad una linea di centro, moderata e liberale, abbandonando ogni velleità di sinistra.

Il fisco è materia delicata. Tocca interessi concreti e mette in rilievo le «contraddizioni in seno al popolo»: tra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi, tra contribuenti onesti ed evasori. C’è poi il tema dei criteri in base ai quali si accede ad agevolazioni, incentivi, bonus di tutti i tipi. Una giungla di spese fiscali da riordinare e accorpare. L’assegno unico e universale per i figli, in questo senso, è un esempio da seguire.

Ridurre le tasse sul lavoro presuppone l’aumento di quelle che incidono sui profitti e sulle rendite finanziarie e immobiliari. La destra, però, è fieramente contraria a qualsiasi forma di tassazione patrimoniale. In un paese in cui oltre il 75 per cento delle famiglie italiane possiede un’abitazione il «no alla patrimoniale» è uno slogan di sicura presa. Il punto è che dietro questo 75 per cento si nasconde quel 5 per cento di famiglie che invece possiede il 25 per cento di tutto il patrimonio immobiliare.

E’ nota la vicenda della figlia del costruttore romano Renato Armellini. Quando nei primi anni novanta morì suo padre, ereditò alcune migliaia di miliardi di vecchie lire e 1.240 appartamenti in città. L’erede, però, dimenticò per molti anni di pagare l’Ici, l’imposta sulla casa. Solo quando, nel 2014, scoppiò lo scandalo, decise di chiudere la pratica con un benevolo «ravvedimento operoso».

Ho ricordato questo episodio perché è emblematico di una particolare riluttanza dei ceti benestanti di pagare le tasse. Nonostante le difficoltà, è questo il momento giusto per fare della questione fiscale il punto focale dell’azione politica e sociale. La destra propone la flat tax, la sinistra è per una fiscalità progressiva. Allo stato, la destra sembra vincente. Ma, se la sinistra riesce a comunicare, parlando il linguaggio della gente comune e chiamando a raccolta tutti quelli che hanno voglia di battersi per una società più giusta, le cose possono andare diversamente.