È andata che un giorno Ilaria Venturini Fendi ha visto questo pezzo di natura sopravvissuto a palazzinari e scempiatori, se n’è innamorata e, «siccome al cuor non si comanda», come ama dire, l’ha comprato e ha trasformato le stalle in ristorante e padiglioni da esposizione, l’edificio dove alloggiavano i lavoratori delle annesse piantagioni di tabacco in un suggestivo agriturismo in stile inizi Novecento, ma con qualche innesto di bioarchitettura contemporanea come i tre grandi camini solari posti a riscaldare – e rinfrescare in estate – una sala polivalente da 530 posti. Il verde lo ha lasciato com’è, in buona parte selvaggio, perché non avrebbe avuto senso fare altrimenti.
Non è difficile poterselo permettere, ammette lei stessa, se porti un cognome impegnativo e sei la più giovane delle figlie della stilista Anna Fendi. Meno semplice è stato decidere di licenziarsi dall’azienda di famiglia, dov’era direttrice creativa per gli accessori Fendissime, per dedicarsi anima e corpo all’agricoltura biologica e alla produzione di formaggi e mozzarella di pecora. «Non è facile per nessuno cambiare totalmente la propria vita, ma non tolleravo più i ritmi frenetici della moda globalizzata, volevo riprendermi il mio tempo e seguire una passione ereditata da mio padre, morto quando ero ancora bambina», dice oggi, a passeggio nei 174 ettari della Tenuta Casal del Pino, in pieno Parco di Veio, a un passo dal disordine della via Cassia che da nord si incunea nella capitale e che ci ricorda cos’era un tempo questo pezzo di agro romano e come sarebbe stato possibile un altro modello di sviluppo per Roma.

Poi, un altro giorno, ha bussato alla porta la paesaggista e giardiniera Antonella Fornai. Cercava un luogo che potesse ospitare una mostra florovivaistica «congelata» dall’Auditorium a un cambio di stagione politica. Ilaria Venturini Fendi, il cui verbo preferito è il neologismo «sharare», che nella sua accezione ancor più che mettere in comune vuol significare creare sinergie, si è trovata immediatamente in sintonia con lei e non ha esitato a metterle a disposizione il luogo che stava ancora ristrutturando, dando vita così a Floracult, che già alla prima edizione (ora siamo alla nona) fece registrare 10 mila presenze. «Mi ha dato la possibilità di condividere questo posto con altri che la pensano come me», spiega. Ilaria Fendi si riferisce non solo ai fruitori della fiera, appassionati di fiori, ma soprattutto a intellettuali, studiosi e creativi impegnati nella battaglia contro i cambiamenti climatici e per un mondo socialmente più equo. Figure come Stefano Mancuso, scienziato di fama mondiale, direttore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale di Firenze e autore di un libro, Plant revolution, nel quale spiega come, per migliorare la nostra vita, non possiamo non ispirarci alle piante. O personaggi di culto come Li Edelkoort, nota «trend forecaster», «ispiratrice di tendenze», nei settori del design e della moda, le cui riviste sono un punto di riferimento per creativi, esperti di marketing e aziende di tutto il mondo. Entrambi saranno alla fiera che comincia domani e si concluderà domenica.

Oltre alle passioni per la natura e per gli animali che l’hanno spinta a frequentare, agli inizi, persino un corso di agricoltura biologica della Coldiretti, Ilaria Venturini Fendi non ha rinunciato a coniugare la nuova passione con la vecchia. Si è convertita all’economia circolare e si è inventata un marchio di «etical fashion», Carmina Campus, con il quale produce borse, anelli, orecchini e altri accessori esclusivamente con materiale riciclato. Interviene a convegni e iniziative su temi ambientali e sociali in tutto il mondo. Uno dei suoi ultimi progetti si intitola Made in prison: grazie alla collaborazione con Socially made in Italy, un gruppo di cooperative sociali, fa realizzare borse con materiali di riciclo dalle detenute delle carceri milanesi di Bollate e San Vittore, da quello di Santa Maria Maggiore a Venezia e di piazza Lanza a Catania. Pezzi unici e fatti a mano, che prima di finire in commercio passano attraverso il laboratorio che ha creato nella tenuta di Casal del Pino. In Africa, grazie alla collaborazione con l’International trade center delle Nazioni Unite, ha visto la luce una linea di borse realizzate con gli scarti delle tende da safari o dei ricoveri per i rifugiati. Motto: «not charity but work», «non carità, ma lavoro». «Prima ero una creativa che si faceva realizzare immediatamente da un produttore qualsiasi cosa le passasse per la mente, ora lavoro con gli scarti dei mercatini e soprattutto delle industrie, con le quali ho avviato dei co-branding», spiega. Il risultato è una moda eco-etica, con forte attenzione al sociale, di fascia alta, come nella tradizione di famiglia. «Mi sono convertita anch’io in qualcosa di nuovo, amo dire che oggi il mio vecchio e l’attuale lavoro hanno un unico comune denominatore», dice ancora.
Il tema centrale di Floracult, quest’anno, è l’aria, «che è l’elemento legato al fiore» e «rappresenta il movimento, la mutevolezza, il cambio delle stagioni, la trasmissione dei profumi», «la forza vitale che sprigiona dalla natura», come si legge nel comunicato stampa di presentazione. È intorno a questo che si terranno incontri, conversazioni e laboratori, che affiancheranno l’esposizione vera e propria. In questo antico tabacchificio dove nel Rinascimento si curavano diversi malanni con l’«herba sancta», che non si sa bene cosa sia ma non si fa peccato a pensare si tratti della canapa indiana, ci sarà spazio per oltre 280 varietà di piante aromatiche, officinali e medicinali, nonché per frutti della «collezione medicea», come l’Arancio amaro a frutto incannellato, che si coltivava in Toscana nel XVI secolo, e per rarità come la Lima dolce romana, un ibrido tra il chinotto e la limetta. Non sarà sola, visto che ci saranno lime da tutto il mondo, tra cui il Marrakesch, il Tahiti e il Philippine Red. E ancora, sono annunciate ben diciannove varietà di azalea del diavolo a fiore grande e fioritura prolungata.
Il piatto forte sarà però, in ossequio al tema della rassegna, una collezione di Tillandsie, una pianta che si nutre di aria ed è in grado di assorbire le sostanze inquinanti prodotte da benzina, gasolio e altri agenti nocivi.
A far loro da cornice, i filari di pini che costeggiano la via d’accesso e una strada interna, le rovine di un’antica villa romana ancora interamente sepolta sotto una collinetta, l’arco etrusco in tufo, due torrenti che si incrociano e una fonte romana del VI secolo d.C. dalla quale tuttora sgorga acqua potabile. Potreste incrociare sulla vostra strada un asino, se siete fortunati una volpe e perfino qualche meno gradito cinghiale selvatico. A poche centinaia di metri in linea d’aria c’è l’antica città etrusca di Veio. Siamo a Roma, ma non è la città che conosciamo.