Era il 14 luglio del 1853 quando l’ammiraglio Matthew Perry si presentò nella baia di Uraga con quattro navi da guerra della marina statunitense, violando l’antichissimo bando per gli stranieri (decretato con un editto durante il periodo Edo dallo shogunato Tokugawa) che aveva chiuso il Giappone in un volontario e altero isolamento. La richiesta – condotta con minacciose cannonate – era di aprire il paese agli scambi commerciali e il porto al soccorso dei naufraghi. Quel primo approdo in terra vietata non sortì l’effetto desiderato, ma Perry promise di tornare l’anno successivo e lo fece, rimpolpando la sua flotta. E, questa volta, il Giappone capitolò.

Cominciò così la lunga storia di seduzioni e contaminazioni tra Oriente e Occidente dove due culture agli antipodi – e lontanissime anche per intenti – si impegnarono alacremente in una collaborazione volta a fertilizzare e rinvigorire immaginari sbiaditi. Un’amicizia tra antagonisti che distribuì i suoi frutti a entrambe le parti in gioco. Il paese del Sol Levante rallentò la sua modernizzazione veicolando una specie di suo doppio vintage ad uso e consumo turistico e rilanciando un’idea di sé che la velocità dei mutamenti, anche industriali, avrebbe inghiottito. L’Occidente invece, in modo inversamente proporzionale, svecchiò il suo linguaggio (artistico e letterario soprattutto) ricorrendo alla sapienza dei maestri di xilografia, fino ad allora sconosciuti. E quanto i pittori dell’ukiyo-e perderanno terreno in patria, spodestati dall’avvento della fotografia e dalla Scuola di Yokohama (che sfoderò nel suo repertorio gli stessi soggetti per budget molto minori), tanto saranno idolatrati fuori i confini nazionali, a migliaia di chilometri di distanza. Quando non giungevano oltreoceano gli originali, arrivavano gli album, in genere composti da cinquanta fotografie che duplicavano, a modo loro, le vedute delle 53 stazioni del Tokaido di Hiroshige.

Con queste premesse culturali e l’Europa già conquistata alla causa attraverso la smania di collezionismo delle élite francesi (lo spartiacque sarà l’Esposizione universale del 1867 di Parigi), il padiglione giapponese all’Expo di Vienna del 1873 venne accolto con entusiasmo e meraviglia, propagando quell’amour fou anche fra gli artisti austriaci. E se il Settecento era andato pazzo per le cineserie, la seconda metà del XIX secolo sarà tutta dedita a quel paese alieno che celebrava l’impermanenza delle stagioni della vita con rassegnata, ed elegantissima, malinconia.
La mostra Fascination Japan. Monet, Van Gogh, Klimt al Kunstforum di Vienna, a cura di Evelyn Benech (visitabile fino al 20 gennaio 2019) racconta – impaginandola con circa duecentocinquanta opere – una relazione intensa, che ha cambiato i connotati dell’arte occidentale. Dopo Parigi, infatti, la japomanie contagiò anche l’Austria e gli artisti della Secessione che modularono la loro lingua ben poco accademica spingendo l’immaginazione tra i giardini fioriti d’Oriente. In molti raccolsero oggetti e tracce – spesso ventagli, kimoni, lanterne, paraventi, le piccole sculture in avorio e legno chiamate netsuke, stampe, tessuti e cartoline – ma non tutti potevano accedere alle xilografie di Hokusai o Hiroshige per il loro prezzo elevato.

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Il Giappone cominciò così a circolare nelle case, negli atelier e in scambi di appassionati. Mentre Monet ritraeva sua moglie Camille in kimono e costruiva ponti giapponesi nella sua residenza di Giverny, Van Gogh accumulava oggetti (arriverà a seicento) e alle pareti appendeva stampe che amava per la loro capacità di rappresentare «una figura con pochi tratti sicuri, come se si trattasse di abbottonare il panciotto». Era entrato a contatto con quel Giappone degli «innesti» ad Anversa. Nel grande porto della città confluivano merci di ogni tipo, anche dall’Estremo Oriente.
Nel frattempo fiorivano – a Parigi come a Vienna – una miriade di bazar specializzati in giapponeserie, nascevano i primi magazzini con settori dedicati come il Bon Marché, e anche piccole gallerie a tema. Per la selezione e le loro scelte, i mercanti si facevano consigliare da viaggiatori avvertiti o diplomatici che vantavano una grande frequentazione del Giappone. In Austria c’è Heinrich von Siebold, mentre in Francia, a dettare lo stile, troviamo il collezionista e dealer Siegfried Samuel Bing: la sua Maison Bing e la rivista Le Japon artistique che fondò furono i perni attorno ai quali come falene girarono gli artisti in cerca di un nuovo vocabolario visivo – da Lautrec a Vuillard e Bonnard, ma anche il nordico Munch, sceso a Parigi e poi tornato nelle sue terre, in sintonia con l’aspetto più dark del folklore nipponico, revenants e mostri.

Il Sol Levante, con i suoi colori puri, le ardite prospettive a volo d’uccello o da punti di vista rialzati e in scorcio, le linee marcate, la bidimensionalità della finzione pittorica ribadita dalla piatta stesura cromatica priva di chiaroscuri, la poetica della transitorietà naturale e il bagaglio di storie di fantasmi fu, dunque, l’alfabetiere del modernismo su cui si esercitarono schiere di artisti, dagli Impressionisti ai «cavalieri» del Blaue Reiter (che nel loro Almanacco inserirono illustrazioni dalle xilografie di Hokusai, Kuniyoshi e Hiroshige) passando per i Secessionisti.
Eppure quasi nessuno degli «iniziati» prese la via del mare e partì alla volta del paese originale. Dal vero, il Giappone fu visitato soltanto dal fotografo e grafico boemo Emil Orlik. Il primo viaggio, simbolicamente, lo fece proprio allo scattare del secolo nuovo, dal 1900 al 1901. Al suo ritorno, documentò la vita quotidiana di Tokyo in una serie di stampe e nel 1909 fu tra i promotori di una mostra sui maestri asiatici. Sarà sempre lui a disegnare la copertina del prezioso volume Kokoro scritto da un eccentrico letterato come Lafcadio Hearn, guardando alle tecniche tessili katagami. La casa editrice Adelphi l’ha riproposta quest’anno per illustrare Ombre giapponesi dello stesso autore.

Nel cuore dell’Europa, intanto, l’infaticabile Gustav Klimt metteva su una collezione caotica, improntata al métissage, di cui purtroppo oggi non è conservato quasi nulla perché andò bruciata durante gli ultimi giorni della guerra, nel 1945. L’aspetto esotico del suo studio ci viene però restituito da un osservatore come Egon Schiele. Il suo sodale di pittura racconta di uno sparpagliamento alla rinfusa di maschere africane, lacche cinesi, vestiti dalle fogge stravaganti, fino al pezzo forte: un’armatura da samurai appesa alla finestra. Quel poco che è rimasto degli oggetti appartenuti a Klimt è esposto in una teca e alle pareti della mostra al Kunstforum, nel tentativo di una parziale ricostruzione di quell’ossessione.
Un’ossessione la sua, che si tradusse nella germinazione di alcuni motivi essenziali dell’estetica giapponese: il formato verticale ripreso dai pannelli hashira-e, gli sfondi su base nera o dorata su cui si intrecciano forme geometriche, pieni e vuoti, foreste stilizza. Soprattutto, l’ipnotica interazione panica degli elementi, che trasformava la pittura in un processo alchemico.