Mettere definitivamente al tappeto il “gladiatore di Pontedera” è impossibile. Uso il presente perché a quasi 80 anni Sandro Mazzinghi (classe 1938) salirebbe ancora sul ring, ma soprattutto perché nei match più duri della sua vita ha sempre trovato la forza di rialzarsi e ripartire all’attacco. Come nel 1964, quando, pochi giorni dopo il suo matrimonio, perse tragicamente la sua prima moglie a causa di un grave incidente stradale, che rischiò di porre fine anche alla sua carriera di pugile. Partendo dal quartiere Bella di Mai, Mazzinghi ha attraversato il secondo ‘900 raggiungendo la vetta mondiale della boxe per ben due volte. Campione del mondo dei pesi medi junior dal 1963 al 1965 e dal 1968 al 1969, ha detenuto anche il titolo di campione d’Europa della stessa categoria da 1966 al 1968. 69 incontri: 64 vittorie (di cui 42 per KO), 3 sconfitte e 2 no contest. Per anni la sua rivalità con Benvenuti ha incendiato le folle. Un lottatore umile, un picchiatore testardo, anche nello stile, un operaio della boxe che ha sfidato arditamente alcuni dei più abili pugili dell’epoca dando vita a combattimenti epici. Inviso ai baroni della boxe italiana dell’epoca a causa del suo temperamento, è uscito dalla scena pugilistica senza clamori e senza alcun riconoscimento.

Il rapporto con sua madre, la pesca a mani nude nell’Arno da bambino, la fame nel dopoguerra; se dovesse raccontare la sua infanzia con un’immagine quale sarebbe?

Ci vorrebbe un dipinto caro mio. Mia madre era una donna fantastica, ho avuto un’infanzia molto dura, ho fatto mille lavori per portare a casa un pezzo di pane ma ero orgoglioso di quel che facevo per la mia famiglia. Se ci penso mi commuovo ancora.

Com’era il rapporto con suo fratello Guido, dentro e fuori dal ring?

Stupendo, non avevo un fratello ma un padre, con lui mi sentivo al sicuro dentro e fuori dal ring. Il nostro era un legame molto forte. Abbiamo girato il mondo e vissuto dei momenti indescrivibili, abbiamo scalato montagne sempre insieme. La nostra è stata una vita intensa e ci siamo voluti un gran bene; questa è la cosa più importante.

Perché iniziò a boxare?

Perché mio fratello Guido era già un bel campione ed io ero affascinato da lui e dalla boxe. E poi perché fare il pugilato non costava nulla; avrei voluto correre in bicicletta ma non avevo i soldi per comprarmela, quindi la boxe era l’unica via d’uscita da una vita non facile.

Cosa ricorda del suo debutto professionistico il 15 settembre 1961 al teatro Puccini di Firenze contro Gagliardi?

Tutto. Avevo una voglia di arrivare pazzesca, era il mio primo match professionistico e non avevo nemmeno una gran buona tecnica. Ricordo che appena salii sul ring cominciai a tirare pugni all’impazzata, volevo colpirlo il più possibile per non fargli riprendere fiato. Riuscii a metterlo a terra e per me fu una liberazione, avevo vinto il mio primo match da professionista. Non stavo nella pelle, che momenti.

Incontrò Benvenuti per la prima volta nel 1961 durante il servizio di leva. Che impressione le fece?

Diciamo che già non ci sopportavamo, sai io toscano molto serio e anche permaloso, Giovanni sorridente e molto burlone, già si potevano intravedere due caratteri molto diversi ma con un unico scopo: quello di diventare campioni. E ci siamo riusciti.

Dopo le vittorie in Francia e dopo aver battuto pugili molto quotati, il 7 settembre 1963 affrontò l’americano Dupas per il titolo mondiale dei pesi medi junior. Diventò il quarto campione del mondo di pugilato dopo Carnera, Loi e D’Agata. Come andò l’incontro?

Con Dupas fu un match fantastico, lui era un grande campione con circa 130 match all’attivo io solo 17,18. Ricordo che aveva un gioco di gambe pazzesco, era velocissimo ma io avevo una grande preparazione e non gli lasciavo tregua. Lo spingevo sempre alle corde e li cominciavo a martellarlo al corpo, alla nona ripresa lo misi KO e diventai il nuovo campione del mondo dei medi junior.

È vero che durante la rivincita in Australia contro Dupas cercarono di sabotare il suo soggiorno? Quell’incontro terminò con un gesto di estrema lealtà da parte sua.

Sì è vero, avevo notato che ogni volta che mangiavo fuori non mi sentivo bene. Conoscemmo un miliardario italo-australiano che ci mise a disposizione il suo ranch e li ci stabilimmo per tutta la durata del soggiorno. Come d’incanto i malesseri sparirono. Fu un match duro, cruento, vinsi per KO alla tredicesima ripresa, andò a terra per ben due volte ma la seconda non si rialzò del tutto. L’arbitro mi invitò a continuare e io poggiai il guanto sul volto di Dupas e lo spinsi nuovamente al tappeto. Era già finito non volevo umiliarlo con un’altra serie di colpi che sarebbero potuti anche diventare fatali. In quell’istante decisi così e conservai il titolo mondiale.

Ha avuto mai paura sul ring?

Sai, io credo che ogni pugile abbia paura quando sale sul ring. Non sai mai come può andare a finire. Ho sempre pregato Dio prima di salire, non tanto per la vittoria ma per terminare il match in perfetta salute e non è cosa da poco.

Nella sua biografia “Pugni amari”, lei racconta che nel 1965 – a pochi mesi dal tragico incidente stradale – l’organizzatore Strumulo e la Federazione pugilistica italiana le imposero la sfida con Benvenuti per mantenere il titolo mondiale in Italia. Benvenuti vinse per KO alla sesta ripresa. È vero che, prima del montante che la mise a tappeto, Benvenuti pronunciò la frase: “Gettate la spugna, non ce la faccio più. Questo mi ammazza”?

È vero, è esattamente come dici tu. Era la quinta ripresa, stavo andando bene, avevo la potenza nelle braccia e un buon colpo d’occhio. Stavo martellando Giovanni con colpi al volto e al corpo, lui era all’angolo provato e pronunciò quelle frasi. Iniziò il sesto round, dal suo angolo lo spinsero verso di me, partì il montante di Nino che mi trovò con la guardia scoperta, colpendomi al mento. Inevitabilmente andai KO.

Senza voler riaprire vecchie polemiche, ritiene ancora ingiusto il verdetto della rivincita con Benvenuti?

Non c’è nessuna polemica con Giovanni. Ormai abbiamo una certa età e ognuno di noi deve raccontare la propria vita, ma rimango sempre dell’opinione, e fortunatamente non sono il solo, che nella rivincita di Roma avevo vinto. Fu un match molto duro, quindici riprese di grande boxe tra i due pugili italiani migliori dell’epoca. Ti immagini il giro di affari?

Perché rifiutò di combattere contro Griffith?

Perché avevo contratti firmati per la Svezia contro Bo Hogberg per il titolo europeo e poi perché non ci vedevo chiaro con gli organizzatori del Madison Square Garden, tutto qui.

Il 26 maggio di 50 anni fa, a San Siro, si svolse l’epica battaglia contro Kim Ki-soo. Che sensazione provò quando riconquistò il titolo contro il sud-coreano?

Una sensazione unica, avevo aspettato tre anni per battermi nuovamente per il titolo del mondo e lo riportai nelle mie mani. San Siro era stracolmo, 60mila persone lì per me; lo dovevo a me stesso e a tutti quelli che avevano creduto in me. Non dimenticherò mai quelle emozioni.

Ha descritto la boxe come una droga, si è mai pentito di essere tornato sul quadrato dopo alcuni anni di inattività?

Assolutamente no, volli fortemente il mio ritorno. Avevo ancora qualche buona cartuccia da sparare e poi come si dice…il primo amore non si scorda mai, se avessi potuto avrei continuato all’infinito.

Qual è il pugno più amaro che ha ricevuto nella vita?

Quello dell’indifferenza. Sono stato un atleta puro e onesto, sono stato amato dal mio pubblico, e lo sono tuttora, ma molto meno dalle istituzioni del tempo. Le proverbiali camicie me le sono sudate tutte e sette, sempre e comunque da me.

Qual è l’incontro che avrebbe voluto combattere e quale quello che non avrebbe mai voluto disputare?

Non ci sono match che non avrei voluto combattere, tutti quelli disputati hanno arricchito il mio bagaglio. Belli o brutti che siano stati. Avrei invece voluto battermi con il mio idolo Sugar Ray Robinson, ne sarebbe venuto fuori un match al fulmicotone. Anche se avessi perso con Robinson non mi sarebbe importato, lui era il mio idolo.

Alla soglia dei suoi 80 anni, dopo una vita di sacrifici e di successi, crede di aver compreso il senso della vita?

Nella vita nulla ti vien dato per niente, anche alla soglia degli 80 anni non si finisce mai di imparare, abbiamo sempre bisogno di qualcuno che ci guidi. Nella mia vita mi sono sempre comportato bene e correttamente e credo che sia la cosa più importante…essere in pace con se stessi.