Dopo la Nokia, la Finlandia è nota per l’esperimento di un «reddito di base» lanciato nel 2017 e destinato a duemila disoccupati tra i 25 e 58 anni selezionati a caso dall’istituto di previdenza sociale, il Kela. Diversamente da quanto apparso ieri nell’infosfera italiana, sulla base di un articolo dell’edizione nordica di «Business Insider», l’esperimento continuerà secondo i tempi prestabiliti. Secondo il Kela, invece, i risultati saranno analizzati all’inizio del 2019 e pubblicati alla fine di quell’anno o all’inizio del 2020.

I disoccupati continueranno a percepire 560 euro al mese esentasse senza l’obbligo di accettare un lavoro vincolante all’ottenimento del sussidio, né di rinunciarvi nel caso in cui fossero riusciti a ritrovare un lavoro. Una volta conclusa la prima sperimentazione, ne potrebbe partire un’altra basata su un «credito universale» analogo a una misura introdotta in Gran Bretagna cinque anni fa che integrerà una serie di sussidi come quello al diritto all’abitare o al sostegno al reddito.

In Finlandia sembra essere accaduta un’altra cosa. Nel dicembre scorso il Parlamento ha votato un progetto di legge che ha modificato il sistema di «attivazione» che impone ai disoccupati di lavorare minimo 18 ore o di partecipare a programmi di formazione di tre mesi in cambio di un «reddito» di 240 euro. Coerentemente con le «politiche attive del lavoro», se non riusciranno a trovare un lavoro perderanno una percentuale modesta, pari al 4,65% del sussidio esistente. In ogni caso i fondi per il sostegno ai disoccupati aumenteranno.

Tuttavia i motivi per allarmarsi esistono. Al momento il governo finlandese non ha intenzione di prorogare l’esperimento sul reddito oltre dicembre 2018. I ricercatori del Kela avevano annunciato l’intenzione di allargarlo a gruppi più ampi tra il 2019 e il 2020 ricorrendo anche a un test su un’imposta negativa sul reddito.

Secondo Olli Kangas, direttore del team di ricercatori, l’esperimento ha giovato all’immagine internazionale della Finlandia. I ricercatori hanno rilasciato centinaia di interviste ai media internazionali e tenuto presentazioni dalla Svezia al Messico. La Finlandia è stata percepita come un paese innovativo che non esita a sperimentare politiche nuove e originali.

Per Miska Simanainen, ricercatore del Kela, «il governo sta apportando cambiamenti che stanno allontanando il sistema da un reddito di base», riferendosi al modello di «attivazione» da poco varato. Questa modifica è in contrasto con la sperimentazione già di per sé inadeguata. Secondo Kangas avrebbe dovuto essere finanziata molto di più e per un periodo superiore rispetto ai due anni previsti.

Nell’ambito dell’associazione mondiale per il reddito di base (il Bien, di cui il Bin-Basic Income Network è la «sezione italiana») si è discusso molto dell’esperimento finlandese. Si è arrivati a mettere in discussione la natura di «reddito di base»: l’importo di 560 euro è inferiore al minimo vitale. Un’altra obiezione è quella sull’universalità. Il programma si rivolge solo ai disoccupati adulti, e non ai precari dai 18 ai 65 anni, ad esempio. Se di «reddito di base» bisogna parlare, allora bisogna estenderlo anche a loro.

L’esperimento, anche se parziale, ha comunque riscosso interesse. Un’inchiesta della Bbc ha rivelato che i partecipanti si sentono «meno stressati» dalla loro condizione di disoccupati e liberi di vivere. In più l’esperimento ha suggerito un’idea potenzialmente interessante: l’idea che un reddito sia l’espressione di un diritto fondamentale della persona che già produce (sulle piattaforme digitali ad esempio) un valore economico «invisibile», ma essenziale per la ricchezza di aziende private o del «benessere» pubblico. La storia finlandese spiega la differenza tra un «reddito di base» incondizionato non basato sul lavoro o sull’appartenenza nazionale ma sulla residenza e un «reddito minimo» vincolato al lavoro.

Il motivo di tanto allarme in Italia è dovuto, con ogni probabilità, al fatto che il «reddito di cittadinanza» del Movimento 5 Stelle (in realtà un «reddito minimo» vincolato a un sistema di «politiche attive» particolarmente esigenti e obbligatorie) è uno dei punti in discussione in vista della difficile composizione di un governo.