La Costa d’Avorio entra ufficialmente nelle cronache della guerra che oppone la cosiddetta galassia jihadista agli stati locali e alle potenze occidentali seguendo un unico, orrendo copione – il massacro di civili inermi – in Medio Oriente come in Europa, in Asia come in Africa. Più nel dettaglio, l’azione di domenica a Grand Bassam aggiorna la mappa che illustra il debordare del conflitto in Africa occidentale, il suo percorso implacabile lungo direttive che storicamente hanno unito il Nordafrica all’Africa sub-sahariana, il Mediterraneo al Golfo di Guinea.

Simbolicamente, ma neanche troppo, è ormai una guerra dei due mari. L’attacco in Costa d’Avorio per modalità e località si associa facilmente alla strage sulla spiaggia di Sousse, in Tunisia, del giugno 2015. Ma il Mediterraneo dovrebbe essere chiamato in causa soprattutto per l’odissea dei migranti: non c’è pietà per i siriani in fuga da una guerra che è sulle prime pagine del mondo da anni, figuriamoci per gli africani che scappano da guerricciole endemiche e ai più incomprensibili, quando non rientrano piuttosto nella categoria, che è ormai un marchio d’infamia, dei migranti “economici”.

Le onde di Grand Bassam toccano sponde a noi più prossime, perché la strage di domenica è legata al nord del Mali, dopo che le truppe d’élite francesi hanno tirato un calcio al vespaio jihadista e ora sembrano acchiappare solo mosche. E quindi ancora una volta allo sconsiderato intervento in Libia. Il 2011 era anche l’anno in cui la Costa d’Avorio provava ad uscire dalla sua guerra civile, una guerra di potere esplosa su un substrato di antagonismi etnici e divisioni territoriali classiche, arbitrarie sì, ma non più di quelle tracciate durante il colonialismo. Un conflitto infine risolto, anche qui, con le teste di cuoio mandate da Parigi per imporre una presunta verità elettorale e spedire in gattabuia a L’Aja uno dei due litiganti.

Oggi il processo a Laurent Gbagbo viene trasmesso in diretta tv dall’Olanda e le esportazioni di cacao tornano a suonare la carica della ri-crescita economica. Ma piano piano emergono con più chiarezza stragi e responsabilità riconducibili all’attuale presidente Alassane Ouattara. Per non dire del Burkina Faso che accusa il presidente della Camera ivoriana, Guillaume Soro, per il ruolo svolto nel tentato golpe dello scorso settembre a Ouagadougou. E dell’altro mandato di cattura emesso per l’assassinio di Thomas Sankara contro Blaise Compaore, l’ex dittatore burkinabè riparato appunto in Costa d’Avorio, vogliamo parlare? Per mettere definitivamente al sicuro il vecchio amico caduto in disgrazia, Ouattara gli ha appena conferito la cittadinanza ivoriana. Insomma, proprio mentre il miracolo minacciava di incrinarsi, arriva l’attacco terrorista – e la conseguente risposta anti-terrorista – a resettare la scena.

Terrorismo jihadista e anti-terrorismo di stato, una tenaglia fatale, un botta-e-risposta ormai consolidato, tragica routine in grado di nascondere le cause scatenanti dell’uno e dell’altro, che ora vacci a capire dove tutto è veramente cominciato. Da un lato sanguinosi attacchi premeditati che mirano sì a colpire i cittadini occidentali e con essi gli interessi economici dei paesi in cui si trovano, ma che in definitiva sembrano avere come obiettivo principale uno “stile di vita”. Dall’altro reazioni che mentre rivendicano con orgoglio i valori che quello stile sottintende, picconano lo stato di diritto in nome di una logica emergenziale in cui quasi tutto è concesso.

Se il caso francese dopo gli attacchi di Parigi è rappresentazione plastica di questa dinamica perversa, i paesi dell’Africa occidentale, in particolare le ex colonie investite di recente dal terrorismo o che temono seriamente di esserlo di qui a poco, offrono riscontri a cascata dello stesso meccanismo. Ma con una differenza sostanziale, un effetto “tutor” che sa di vecchie logiche coloniali. Se il presidente della Costa d’Avorio Alassane Ouattara saprà svolgere bene il ruolo di gendarme “alleato” che le circostanze ora gli impongono, si accrediterà nei confronti degli interlocutori internazionali al punto che poi, una volta archiviati i suoi peccati, sul piano interno potrà silenziare in tutta tranquillità oppositori, storici e giornalisti scomodi, sicuro che nessuno gliene chiederà mai conto.