La sentenza della cassazione su Mafia Capitale fa discutere, smonta l’architettura costruita dalla procura di Roma, ma non rappresenta affatto un colpo di spugna sulle condotte illecite di amministratori, dirigenti pubblici e affaristi. Ieri ad esempio è arrivato il turno della manette ai politici. A poche ore dalla decisione della corte suprema che a stabilito che Salvatore Buzzi e Massimo Carminati non avevano messo in piedi un’associazione a delinquere di stampo mafioso, le porte del carcere si sono aperte per nove condannati al processo «Mondo di mezzo».

Adesso, infatti, risultano condannati in via definitiva personaggi come Giordano Tredicine, ex consigliere comunale del Pdl, l’ex presidente in quota Pd dell’assemblea capitolina Mirko Coratti e il suo collega di partito Andrea Tassone, che presiedeva il municipio romano di Ostia. Il loro arresto arriva in conseguenza alla legge cosiddetta «Spazzacorrotti», che prevede «misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici».

Per gli imputati considerati fino a 48 ore fa esponenti di un nuovo tipo di mafia, invece, si dovrà procedere al ricalcolo della pena. Nel frattempo dovrebbe scattare la fine del carcere duro e, si augurano i loro legali, persino il ritorno a casa in attesa di nuova sentenza. «Ci aspettiamo che venga immediatamente revocato il 41 bis», dice ad esempio il difensore di Carminati, Cesare Placanica.

L’ex Nar, che si trova ancora nel carcere di massima sicurezza di Sassari, era stato condannato in secondo grado a 14 anni e mezzo. Anche i difensori di Salvatore Buzzi, cui i giudici avevano dato in appello 18 anni e 4 mesi, potrebbero a breve presentare istanze di scarcerazione. In primo grado, che non aveva riconosciuto la natura mafiosa dell’organizzazione, Buzzi era stato condannato a venti anni. Da cui muove affidando ai suoi avvocati una dichiarazione: «La sentenzadi primo grado, che comunque per me era stata pesante, era chiara», dice Buzzi. Che poi indirettamente commenta così l’arresto di alcuni esponenti politici: «La cassazione al contrario di altri mi ha creduto – prosegue Buzzi – Non ha condannato soltanto me ma soprattutto la politica che mi spremeva per farmi lavorare. Erano loro, non io, a chiedere favori e soldi. Ma la mafia non c’entrava».

Tra i politici condannati uno solo fino a ieri si trovava in cella: è l’ex capogruppo del Pdl in Regione Lazio Luca Gramazio, condannato in appello a 8 anni e 8 mesi. Adesso il senatore di Forza Italia Francesco Giro invoca la sua scarcerazione. Dopo oltre 4 anni di galera ha buoni motivi per sperare che il ricalcolo della corte d’appello gli consentirà di ritornare libero. Gramazio è figlio dell’ex missino di piazza Tuscolo e parlamentare di An Domenico: si distinse negli anni novanta per aver capitanato le prime aggressive campagne contro i campi rom e l’ironia della sorte ha voluto che suo figlio è stato condannato per aver avuto relazioni con un sodalizio che anche su rom e migranti lucrava.

Nel 2000 per conto dell’allora presidente della Regione Francesco Storace, Domenico Gramazio andò al vertice l’Agenzia laziale della sanità pubblica, nodo nevralgico della spesa pubblica. Poi fu il turno del figlio Luca, che alle regionali del 2013 raccolse quasi 20 mila voti e ricevette, dicono le intercettazioni, anche una telefonata di complimenti da parte di Massimo Carminati in persona. Non c’è bisogno di bollini della magistratura o dello stigma della mafiosità per ricostruire il modo in cui a Roma negli anni scorsi ha funzionato il potere.