Gran finale. Per le strade di Roma, dalle parti del Colosseo, fa la sua ultima apparizione il camioncino pubblicitario del candidato Schiuma, «per una politica pulita». E’ il suo slogan, non è una battuta. Ci mancherà. E ci mancherà il manifesto del candidato Cochi – fotografatosi chissà come al centro dello stadio Olimpico pieno. Anzi, non mancherà. Ingiallirà pian piano con l’estate.

Per sentire una battuta elettorale bisogna invece andare al comizio finale di «Arfio» Marchini, davanti alla chiesa di San Paolo. Qui un pubblico curioso e composito attende soprattutto il concerto di Antonello Venditti, gloria cittadina che non si muove per meno di uno scudetto (negli anni ’70 però cantò Roma capoccia in un filmato girato da Nanny Loy per il sindaco Petroselli). Ed ecco la battuta. «Come mai stai qui?», chiede il presentatore Carlo Massarini al comico romano Maurizio Battista. E lui: «Pe’ nun sta a casa co’ mi’ moje!», che del comico romano è praticamente l’essenza, la pietra angolare di ogni monologo.

Quattro comizi quattro, tra le cinque del pomeriggio e le nove della sera provano a scuotere l’ultimo giorno utile di campagna elettorale. Colpa della serata fredda o della freddezza della partita, non più di qualche decina di migliaia di romani (in tutto) accettano la sfida. Alle sette della sera, affacciandosi a piazza del Popolo scelta dai Cinque Stelle per l’evento finale, lo Tsunami Tour di Beppe Grillo è di una mosceria senza pari. Grillo fa capolino nell’enorme vignetta stile Bonvi dietro il palco, a bordo di un tappeto volante che incombe sulla capitale, con in testa un elmo a cinque stelle. Sotto il palco gente con le maschere di Anonymous, tenute dietro la testa. Sul palco scienziati e nerd dall’oratoria pacata, dalle vedute epocali e dal fascino scarsino. «La democrazia – dirà l’esperto di internet – sin qui non ha avuto cittadinanza italiana».
A San Giovanni invece, attorno a un palco da primo maggio, coi comici, i musicisti, i candidati dei municipi giovani e sconosciuti (in genere è la lunghezza della barba a segnalare il più e il meno di sinistra), i militanti democratici superstiti, si attende Ignazio Marino fin dal primo pomeriggio, e ci si fa coraggio. Il Jovanotti de La sera dei miracoli però è registrato. I cartelli «Daje» su fondo giallo sono distribuiti in gran quantità. Servono a preparare l’ultima battuta del candidato. E’ il suo slogan: «Daje!», griderà finalmente Marino al tramonto, con un po’ d’eccesso diresti, che dell’indolente semidialetto romano è il contrario.

Il «genovese» Marino, del resto, è bersaglio facile dei comizianti del centrodestra, riuniti coi loro militanti di fronte all’Arco di Costantino sfondo Colosseo. Solo i romani, d’altra parte, possono comprendere le profonde implicazioni geopolitiche di questo rendez-vous di vecchi fasci afflitti da un antico senso di inferiorità. Dopo l’evocazione di Garbatella e San Lorenzo, la piazza tira un sospiro di sollievo ai nomi di Talenti e Eur, perchè a Roma, a volte, il tempo è capace di non passare mai. E in attesa dell’apparizione di Berlusconi si possono osservare da vicino e senza rischiare danni i vecchi striscioni Msi di Colle Oppio e Piazza Tuscolo, come bandiere del Piave. E vecchi camerati darsi di gomito, coi Ray-Ban e i giubbetti stretti di ere geologiche passate luccicare ancora. Dell’abbraccio sul palco tra Alemanno e Storace poco comprendiamo dal punto di vista politico, ma moltissimo dal punto di vista sentimentale. E’ Storace a dar la stura al vecchio repertorio heavy metal. «Marino – grida – vuole sovvertire l’ordine naturale della famiglia». E i Rom, «fuori dai centri storici». Scaldando così l’ambiente per l’arrivo di Giovanna D’Arco/Giorgia Meloni che ringrazia, e spera vivamente di non fare la fine di Giovanna D’Arco. Mentre dal viale Aventino s’avanza uno sparuto corteo di Fratelli d’Italia con majorette e fumogeni tricolori, l’ex ragazza «nata tra i lotti della Garbatella» picchia duro sui menù etnici imposti da Veltroni ai bambini dell’asilo: «Costretti a mangiare il goulash!».

Ahi. Si sfollerà più tardi, dopo il comizio di Silvio, sulle note di Meno male che Silvio c’è, ormai al limite del grottesco felliniano. E quasi indovini i pensieri degli sfollanti: sì, forse era meglio mangiare il goulasch.