[do action=”quote” autore=”Lo speaker repubblicano Boehner “]«Abbiamo combattuto per la giusta causa, solo che non abbiamo vinto»[/do]

Alla fine, quasi a voler dare un finale hollywoodiano al thriller che per le ultime settimane ha galvanizzato e paralizzato Washington, Obama ha apposto la firma al decreto più sofferto dopo la mezzanotte di ieri (le sei di ieri mattina in Italia). Riautorizzando così i finanziamenti necessari a concludere la serrata del governo e alzando il credito necessario al tesoro americano per saldare i propri debiti. Il governo degli Stati Uniti ora rimarrà operativo, almeno fino al 15 gennaio prossimo, il default sarà evitato fino al 17 febbraio. Il provvedimento costituisce inoltre una commissione bicamerale per esaminare strategie «bipartisan» per risanare il bilancio. Un’ultima giornata convulsa che ha visto l’estremo tentativo dei repubblicani irriducibili della Camera di impedire l’accordo raggiunto dal Senato prima della resa finale. «Abbiamo combattuto per la giusta causa – ha detto lo speaker Boehner – solo che non abbiamo vinto».

Dopo aver spinto il paese sull’orlo del precipizio i repubblicani non hanno portato a casa niente, sicuramente per quanto riguarda l’odiata riforma sanitaria, usata dagli irriducibili del Tea Party per precipitare la crisi: Obama non ha ceduto al ricatto, e la linea dura ha finito per rivelare il bluff degli avversari regalando al presidente una delle maggiori vittorie politiche del suo mandato. Obamacare resta, dopo aver rischiato di dilaniare il partito, gli estremisti rimediano una figuraccia che mette ora repentaglio il futuro della politica conservatrice in America. La partita di poker, persa cosi smaccatamente, ha infatti spalancato una voragine all’interno del partito republicano, una spaccatura forse incolmabile fra l’anima moderata, rappresentante degli interessi istituzionali della finanza e del capitale e la frangia «talebana», incarnata da Ted Cruz, leader del Tea Party, fautore di un nuovo fanatismo. Il risentimento che la sua strategia ha suscitato fra i moderati è stato ben illustrato da John McCain, leader storico del partito che ha definito i nuovi falchi «gente a cui la profonda ignoranza in tema di politica, economia e pubblica amministrazione, non impedisce di essere profondamente convinta delle proprie sante ragioni».

La crisi a dire il vero è solo rimandata: difficilmente la bicamerale Usa, con tutta la buona volontà, riuscirà a trovare accordi su divergenze ancorate in profonde differenze ideologiche e calcoli politici. Quello dei repubblicani, certamente dell’ala oltranzista, è di far fallire a tutti i costi il secondo mandato Obama. Per questo Obama che ha rivolto ieri al paese un discorso «conclusivo», ha calcato sulla necessità di abbassare i toni dello scontro e tornare al normale processo politico: «Niente ha nuociuto alla nostra immagine e prestigio che l’inverecondo spettacolo che Washington ha dato al mondo, che ha depresso i nostri amici e incoraggiato i nemici. Ma l’America rimane una nazione indispensabile e siamo pronti ora a riassumere la responsabilità guadagnata in molti decenni di leadership economica». Un’affermazione quest’ultima che ha rivolto ai cittadini ma forse ancora di più a pretendenti rivali (e controllori del debito estero americano) come la Cina e ai mercati pronti, fino a l’altroieiri, a declassare il rating Usa a causa di una crisi che ha provocato danni quantificabili, secondo l’agenzia Standard and Poor in 24 miliardi di dollari perduti nella crescita economica.
«L’imperativo ora è abbassare i toni – ha aggiunto Obama – basta governare di crisi in crisi, attraverso lobby, blogger, talk show e agitatori di professione». Si è trattato di un esortazione certo vana, dato che è praticamente garantito che all’inizio del prossimo anno la crisi verrà riproposta in tutte le sue componenti, comprese le minacce di far crollare il rating nazionale, e di tornare a chiudere il governo con tutti i patemi del caso. Un circolo vizioso che di fatto paralizza il processo democratico ed è tossico per la reputazione e l’egemonia politica americana. «Non è così che funziona la democrazia», ha ostenuto il presidente nel suo discorso, «non è questo che avevano in mente i padri fondatori quando diedero all’America il dono dell’autogoverno. Deve pur essere possibile dissentire senza minacciare la catastrofe e tornare all’arte del compromesso; la discordia non può equivalere alla disfunzione».

[do action=”quote” autore=”Barack Obama”]«Questo non è il paese dei padri fondatori. Ora ci serve la fiducia dei cittadini»[/do]

Anche questo augurio è pero’ destinato a rimanere una vana speranza. La «crisi di nervi» della destra repubblicana è infatti espressione di un fondamentale shift politico, e diremmo, antropologico, del paese in cui la destra esprime sempre più l’ansietà e la paranoia di settori sociali che si vedono esautorati della tradizionale egemonia. Movimenti come il Tea Party rappresentano l’America bianca e rurale che è «perdente» nella transizione demografica ad una società multitetnica e multiculturale. Lo stesso Obama non è tanto un predsidente liberal nella tradizione roosveltiana, ma incarna invece perfettamente un evoluzione politica che contiene tutti i cambiamenti temuti dai settori destinati a diventare ua nuova minoranza. Obama ha vinto grazie ai giovani sempre più multietnici e culturalmente «aperti» a conquiste libertarie come i matrimoni gay e la liberalizzazione della marijuana, vissute come cocenti sconfitte nelle «culture wars» da una destra sempre più trincerata, accerchiata da una relatà non controllabile. Laicità e welfare sono entrambe anatema per questa destra e l’attentato «suicida» alla tiepida riforma sanitaria è stata espressione di una battaglia esemplare ma perdente contro uno stato sociale percepito come nemico assoluto.

La dinamica politica si sta così riallineando lungo divisioni etnico-demografiche. Il target di Fox News, organo ufficiale della destra, è costituito nella grande maggioranza di maschi bianchi sopra i 50 anni. L’audience di MSNBC l’analoga operazione a sinistra è equamente divisa fra sessi ed etnie di under 30. È la fotografia di una paese sempre più diviso in «bruni» e «grigi»; da un lato una classe politica emergente costituita da immigrati , prevalentemente ispanici e asiatici, sempre più integrati e dall’altra una ex-maggioranza bianca sempre più anziana e conservatrice. Non è un caso che Obama ieri, capitalizzando sulla vittoria, abbia posto fra le prossime priorità del suo programma la riforma dell’immigrazione, quella legalizzazione di oltre 10 milioni di clandestini che favorirebbe ulteriormente la base politica democratica e che per questo è forsennatamente opposta dai repubblicani. Un’altra battaglia nello scontro che, malgrado le esortazioni di Obama, è destiato ad essere sempre più acceso.