Dopo la gravità fanta-metropolitana del primo buio episodio del rifacimento di Final Fantasy VII uscito durante la primavera infetta e claustrofobica del 2020, ecco invece i panorami vasti e abbacinanti, la leggerezza, la commedia persino, della seconda parte intitolata Rebirth uscita per Playstation 5.

Ma non vi inganni la tenera, esilarante bizzarria degli innumerevoli, a tratti dolcissimi siparietti spassosi ludici e narrativi, poiché questa lievità va intesa in un’accezione quasi mozartiana, la volontà di illudere con un genio sommo della compassione per l’umano dolore che sotto la bellezza melodica, le fioriture e l’allegra esuberanza dei temi non si celi una malinconia devastante, non ci siano i germi della fine, non si agiti solo dissimulata ma non per questo inerte, la tragedia.

Ecco dunque che dopo il maestoso primo movimento in Do Minore del gioco del 2020, Final Fantasy VII Rebirth suona come un adagio lirico, consolante e amabile in Fa Maggiore, dove d’improvviso, e per questo sconvolgenti, si manifestano derive strazianti persino per chi già conosce il racconto dell’opera originale, messa in crisi, ripristinata, di nuovo travisata e poi ancora ribadita in una maniera magistrale, confusionaria o meglio onirica ed emotiva (forse per questo equivocata da molta critica come illogica) dagli autori che riscrivono un classico del 1997, un «loro» classico, con la sapienza e la sensibilità di un poeta che torni in tarda età sui suoi scritti giovanili.

Se la progressione del primo capitolo è lineare, chiusa e spietata come la metropoli mostruosa e tirannica di Midgar con i suoi ghetti che giacciono nell’ombra delle aule dorate di ricchi e potenti, promotori dell’imminente crisi ambientale che porterà alla fine del pianeta, quella di Rebirth si scioglie nella semi-libertà di un «open-world», un mondo aperto, o un insieme di questi, da esplorare con lentezza rigorosa per non rinunciare alle possibilità che i suoi spazi offrono, che sono ludiche e diegetiche insieme. All’abbondanza di mini-giochi travolgente di Rebirth coincide sempre un racconto più o meno esplicito e dalla diversa dilatazione temporale, schizzi minimali o lunghi segmenti animati.

Gaia, così si chiama il pianeta di questa fantasia finale, è per questo un mondo vivo, palpitante di persone, occasioni e racconti che persino nella ripetizione di qualche forma ludica (le cacce ai mostri, la scoperta delle fonti vitali o dei templi delle grandi creature da evocare) tende sempre alla variazione, manifesta una sua unicità non solo per un aumento della difficoltà di gioco ma proprio per la narrazione della quale sono sempre tramite.

E durante le decine di ore di un videogioco che non stagna mai e continua a sorprendere fino alla fine, grazie a questa sublime infestazione narrativa, si instaura un rapporto sentimentale potentissimo con i suoi protagonisti già indimenticabili nell’originale ma qui, nella loro smisurata espansione, ancora più vivi: Cloud sempre più smarrito, la deliziosa e talvolta dolcemente infantile Aerith nel profondo dolente e più di tutti consapevole dell’orrore, la bellissima ed eroicamente «russmeyeriana» Tifa, il traumatizzato leader ecoterrorista Barret, la giovane ma non sprovveduta ninja Yuffie, il canide parlante dalla personalità poliedrica di saggio anziano e smodato adolescente Red XIII, il gatto robotico assai più interessante qui che nell’originale Cait Sith, il surreale e ancora impalpabile redivivo Zack, l’antagonista spettrale e non morto Sephiroth. Non solo queste figure ormai icone dell’immaginario sono esaltate in Rebirth, ma ogni personaggio secondario, amichevole, ambiguo o malefico che sia, ha una sua dignità, oltre che una cura artistica peculiare nel disegno che lo distingue da ogni altro grazie al talento pittorico di Nomura e Ferrari o alle musiche eccezionali della partitura.

Non si resta dunque indifferenti a caratteri non fondamentali come il buffo Johnny (che spasso la missione dei cloni), al pianista non vedente e al suo amore per la musica, al muscoloso quanto buffo Dyo, al folle e disperato Dyne e tanti altri. E tutti insieme, dai protagonisti fino ai solo illusoriamente insignificanti abitanti di paesi e città, essi compongono un affresco immenso su un modo che muore che come in altre fantasie finali è assai simile al nostro.

Ancora più degno di nota, strategico e spettacolare risulta il sistema di combattimento, danza tattica sfrenata che costringe a trascorrere da un personaggio all’altro per sopravvivere a lotte mai superficiali e ripetitive contro un «bestiario» ostile vario, agguerrito e diversificato. L’esplorazione può all’inizio illudere della libertà monotona di un «open-world» convenzionale ma non è così perché proseguendo nel videogame le vie diventano più tortuose e navigarle richiede osservazione e calcolo del percorso. E nel frattempo si gioca a carte, si inscenano giochi strategici in tempo reale traslandoci in antiche forme «pixellose», si inseguono polli fuggiti ma non come in Legend of Zelda, si gareggia cavalcando i pennuti chocobo, si riportano ai genitori i dispettosi e quasi odiosi mai così poco «pucciosi» Mogurini, si raccolgono funghi per farne una zuppa, si suona il pianoforte in una magnifica simulazione…

Decine di giochi nel gioco diffusi in una maniera organica che non risulta mai artificiale, fino ad un finale allucinato e bellissimo che molti non hanno apprezzato, una elegia tra David Lynch e Frank Capra che trascorre nell’’incredulità commossa di un sogno ad ogni aperti, triste e consolante insieme.

Nell’attesa del terzo e ultimo capitolo di questo esemplare rifacimento/variazione/conferma di un’opera assunta a materia di culto, Final Fantasy VII Rebirth è già un capolavoro compiuto anche se considerato solo nella sua originalità, un grandissimo videogioco puro come motore di divertimento, una grandissima storia e un grandissimo mosaico di cinema laddove l’attività ludica si sospende nella non interattività.

Epopea corale su un pianeta morente
di Giulia Martino

Dopo un breve prologo ambientato nel tormentato passato dell’ex SOLDIER Cloud Strife, il percorso degli eroi di Final Fantasy VII Rebirth si apre con una netta contrapposizione rispetto a quanto avveniva in Final Fantasy VII Remake, primo capitolo della trilogia che rilegge gli eventi di Final Fantasy VII a quasi trent’anni di distanza dalla sua uscita.
Se nel primo capitolo i protagonisti si trovavano oppressi dagli spazi stretti e bui della città di Midgar, sordida e sporca nei suoi bassifondi ma non meno chiusa e opprimente nelle aree più ricche, in Final Fantasy VII Rebirth si muovono passi dapprima timidi e poi sempre più sicuri in un mondo che alterna aree aperte a sezioni più guidate, un’alternanza riuscita e ben dialogante nei vari comparti del gameplay.

Maggiori le criticità – presenti anche nel videogioco originale – in zone, come il parco divertimenti Gold Saucer, che si inseriscono come intrusioni consumistiche in un mondo morente e che vengono (in alcuni casi inspiegabilmente) accettate da un gruppo di protagonisti il cui nucleo è formato da ecoterroristi che dovrebbero battersi ferocemente, almeno sulla carta, contro lo sfruttamento del pianeta Gaia e della sua energia vitale.

Sono le medesime criticità che si rinvengono in altri capitoli della serie, in differenti contesti: risultava surreale poter giocare infiniti tornei di calcio acquatico, il Blitzball, nella Spira di Final Fantasy X, un mondo in balìa di un mostro capace di uccidere migliaia di persone in pochi minuti in qualsiasi angolo del pianeta. Nella serie Horizon ci troviamo in un futuro distopico in cui l’umanità ha dovuto ricominciare da zero dopo aver causato l’annichilimento del pianeta costruendo potentissime macchine senzienti; sebbene si sottolinei spesso la necessità di prendersi cura della Terra e delle sue risorse, drenate da forze misteriose e apparentemente onnipotenti, nondimeno la protagonista Aloy uccide i pochi animali presenti per ricavarne pelli, artigli e zanne, e saccheggia in ogni modo le lande alla ricerca di strumenti da impiegare per realizzare armi, vestiti e potenziamenti.

È a dir poco complesso conciliare le dinamiche che si realizzano in videogiochi a mondo aperto con i messaggi ambientalisti che la narrativa di videogiochi come Final Fantasy VII e Horizon vuole veicolare: anche in Rebirth la raccolta di risorse dal pianeta Gaia morente è essenzialmente per potenziare i protagonisti ed è esplicitamente incoraggiata mediante l’impiego di indicatori appositi nel corso dell’esplorazione delle varie sezioni del gioco.

C’è però tanto altro, racchiuso in passaggi e archi narrativi che riescono a conferire spessore e tridimensionalità a personaggi che, ormai quasi tre decenni fa, erano soltanto un ammasso di pixel grossolani, e ora acquisiscono un realismo e un respiro che soffiano in loro una nuova vita, cogliendo anche le opportunità offerte dal doppiaggio. Si scopre di più del passato di Barret Wallace, pentitosi di aver appoggiato i piani della Shinra relativi alla costruzione di un reattore nei pressi della sua cittadina natale, Corel. La storia di Barret non è una vuota favoletta: i giocatori possono constatare direttamente le conseguenze delle scelte di Barret e delle persone favorevoli al piano attraversando le misere strade di Corel, condannata alla povertà in seguito all’esplosione del reattore e a un raid della Shinra che ha ucciso parte della popolazione.

Si scrive in questi vialetti il destino del leader del gruppo ecoterroristico AVALANCHE e la sua ferma volontà di fermare il degrado del pianeta, a qualunque costo – anche causando la morte di esseri umani. In questo e in molto altro, Final Fantasy VII Rebirth si contrappone nettamente a Final Fantasy XVI, ultimo capitolo della serie, uscito neanche un anno fa: in Rebirth troviamo un gruppo di eroi coeso, palpitante di motivazioni, storie, traversie, in continua evoluzione anche a livello relazionale, con l’esigenza, per il giocatore, di assumere il controllo di tutti i personaggi del variegato team capeggiato da Cloud Strife, tutti dotati di pari dignità e di grande spazio nell’economia ludica e narrativa del gioco.

L’amore dimostrato dai fan nel corso degli anni verso Final Fantasy VII la dice lunga sui pregi di questo approccio, respinto in Final Fantasy XVI per sperimentare un capitolo decisamente più incentrato sull’esperienza di un singolo – Clive Rosfield – che, pur circondato da un intero gruppo di resistenza verso l’oppressione dei portatori di poteri magici, agisce come uomo solo al comando e come unico personaggio giocabile per la stragrande maggioranza dell’avventura. Ripensando proprio a Final Fantasy XVI, si rintraccia forse ancora più bellezza nella varietà di Final Fantasy VII Rebirth, nella costruzione magistrale di molte delle sue missioni secondarie (che «secondarie» sono solo nel nome), nella presenza di un cast convincente e sfaccettato, nei tanti luoghi e città in cui si incrociano storie e vite capaci di lasciare il segno.