«Il Filottete è il dramma dell’abbandono. Un uomo è stato abbandonato con deliberato proposito da altri uomini, lasciato completamente solo, malato e senza risorse, su un’isola deserta (…) Questo dramma è molto vicino a noi. Certo dopo così tanto tempo, non si abbandonano più le persone su un’isola deserta. Ma non c’è bisogno d’essere su un’isola deserta per essere abbandonati. Ai giorni nostri, quanti esseri umani muoiono in modo oscuro di miseria e di umiliazione, talvolta nel bel mezzo di una grande città. Le loro morti sono contate nelle statistiche; qualche volta, se si sono suicidati, si accorda loro qualche riga tra le altre notizie. Ma ciò che ha potuto attraversare le loro menti e i loro cuori, nessuno se lo domanda. Si preferisce non pensarci».

Poiché questa rubrica esce il Primo Maggio stavo pensando a qualche idea legata al significato della data, e mi è capitato in mano un libretto comprato anni fa.

Raccoglie tre testi di Simone Weil destinati a un giornale di fabbrica: sono «riassunti» di tre tragedie di Sofocle, Antigone, Elettra e Filottete (il melangolo, 2009). Come spiega nell’introduzione Giancarlo Gaeta, Simone Weil era tornata all’insegnamento liceale dopo l’esperienza, intensa e drammatica, del lavoro in fabbrica, e desiderava non perdere il legame con una condizione operaia «appena distinguibile in quegli anni da una moderna forma di schiavitù».

Aveva conosciuto il direttore tecnico di una fonderia vicina alla sua città, Bourges, e dopo una non semplice contrattazione aveva ottenuto di pubblicare articoli sulla poesia greca, in forma accessibile.

Simone avrebbe voluto di più: un ruolo di mediazione culturale tra operai e direzione per favorire consapevolezza, contribuire alla dignità di un lavoro abbrutente. Questo non fu accettato, ma lei era convinta che fosse importante anche la sola conoscenza di un’arte «vicina al popolo, poiché in questa, a differenza di tanta letteratura moderna, trovava espressa col più alto grado di lucidità, di purezza e di semplicità la condizione umana, sottoposta al duro dominio della forza».

Il testo citato all’inizio è un frammento dell’articolo sul Filottete. In realtà solo il pezzo su Antigone fu pubblicato.

Siamo nel 1936, e in giugno ci fu in Francia una ondata di scioperi che investì anche la fonderia, vanificando il progetto della Weil. Lei ne fu contenta, apprezzando il successo della lotta che aveva reso possibile ai lavoratori per alcuni giorni di «affermare la propria esistenza, rialzare il capo, imporre la loro volontà, ottenere vantaggi non dovuti a una generosità accondiscendente».

Se Filottete è il simbolo dell’abbandono in cui può essere gettata una persona subalterna, Antigone e Elettra rappresentano la volontà di ribellarsi anche da una condizione di solitudine e di nessun potere: Elettra che «pur obbedendo per forza, in fondo al suo cuore non si sottomette mai».

Certo anche ai nostri giorni non si abbandonano più gli esseri umani su un’isola deserta (tutt’al più li si rinchiudono in campi profughi e ci si abitua al fatto che affoghino in mare, e certo non esistono forme di lavoro schiavistiche).

Né sappiamo se circolino persone come le due tragiche figure femminili descritte da Sofocle, capaci di rivoltarsi ai tiranni di turno. Tuttavia non sono parole che risuonano ancora in noi?

Compresa questa tipica osservazione di Weil: la vittoria dello sciopero «è ugualmente bene per i capi – per la salvezza dell’anima loro – aver dovuto anch’essi, una volta nella loro vita, piegare di fronte alla forza e subire un’umiliazione. Ne sono lieta per loro».