Il settimo centenario della morte ha dato un impulso notevole agli studi su Dante; in vista del traguardo del 2021 sono stati infatti pubblicati, e continuano a uscire, nuovi importanti contributi, edizioni, commenti. D’altra parte, la circostanza celebrativa ha incoraggiato anche una pratica dell’‘evento’, che ha coinvolto sia esperti e professionisti della cultura letteraria, impegnati in iniziative di pregevole divulgazione, sia amatori più improvvisati, che hanno rischiato di saturare uno spazio comunicativo abitato da attori, cantanti, politici, matematici. Dante è così diventato l’oggetto (la vittima?) di un meccanismo che ricorda paradossalmente il procedimento figurale attivo nella Commedia: come ha spiegato Erich Auerbach, nel poema dantesco i personaggi sono spesso ‘figure’, cioè prefigurazioni adempiute dalla forma perfetta che assumono nell’aldilà, o da altri personaggi che ne richiamano tratti e funzioni (Enea e San Paolo ad esempio, per il fatto di aver compiuto viaggi oltremondani, sono figure di Dante stesso). Ora, il Dante storico, morto nel 1321, sembra trovare un adempimento nel Dante del 2021, figura ideale in cui convergono spesso studio e invenzione, curiosità e desiderio di legittimazione simbolica, uniti forse al bisogno di un’occasione per uscire «a riveder le stelle», dopo un anno di pandemia.
È così che Dante, narratore che ha sempre ispirato a sua volta racconti sulla propria opera e sulla propria vita, è diventato oggetto di uno storytelling che ne influenza tanto la ricezione pop, quanto in parte il profilo disegnato dagli specialisti. La tentazione e forse anche la necessità di presentare la vicenda dantesca ‘come un romanzo’, integrando per via di congettura le numerose lacune, è infatti presente anche nelle più affidabili ricostruzioni, che alludono al genere fittivo non per autorizzare un’invenzione sbrigliata, ma per rendere più agibile la strada del racconto biografico. È il caso, tra gli altri, di Marco Santagata, che nel 2012 intitolò Dante. Il romanzo della sua vita un importante volume. Ebbene, una delle qualità che distinguono l’ultimo libro del filologo Paolo Pellegrini consiste proprio nella programmatica rinuncia al romanzesco, affermata per sottrazione già dal titolo, sobrio e insieme eloquente: Dante Alighieri Una vita (Einaudi «PBE Ns», pp. 252, e 22,00). Questo nuovo volume si dispone sullo scaffale delle biografie dantesche recenti insieme almeno a quelle di Santagata, di Giorgio Inglese (Vita di Dante. Una biografia possibile, Carocci 2015), di Enrico Malato (Dante, nuova edizione Salerno 2017), di Alessandro Barbero (Dante, Laterza 2020), di Elisa Brilli e Giuliano Milani (Vite nuove. Biografia e autobiografia di Dante, Carocci 2021, già apparsa in francese per Fayard).
Attraverso gli otto capitoli del volume, Pellegrini segue le tracce di Dante incrociando le coordinate del tempo e dello spazio (con una particolare cura per la costruzione di una mappa cronologica dei soggiorni del poeta tra Verona e il Casentino, tra Pisa e Ravenna) sulla base dei documenti a disposizione, in particolare delle fonti medievali e umanistiche: i commenti trecenteschi, Boccaccio, Leonardo Bruni, Biondo Flavio. Di grande pregio e utilità è il capitolo iniziale su «Firenze tra XII e XIII secolo». Come in un restauro, Pellegrini non integra le lacune ma lascia che la perdita di continuità del tessuto biografico resti evidente («Dove si sia recato Dante nell’estate del 1304 è materia della più ampia discussione»; «Dall’estate del 1309 all’estate del 1310 le tracce di Dante si perdono nuovamente»). Di conseguenza, le ipotesi sono presentate come tali, senza che sul dato storico stinga il colore del rifacimento. Non ingannino però le attenuazioni prudenziali («Sospetto che…», «avanzo un’ipotesi», «volendo azzardare, direi…»); l’understatement non riduce la fermezza, né in certi casi la sprezzatura nei confronti dei lavori degli altri dantisti, spesso convocati proprio con intenzioni critiche. Le confutazioni di Pellegrini sono rigorose, ma la tensione agonistica che a tratti si percepisce difficilmente susciterà l’interesse di «un pubblico più ampio dei consueti venticinque lettori» o faciliterà «una futura diffusione dell’opera anche oltre i confini d’Italia», come giustamente auspicato nella Premessa. In particolare, il filologo è a favore dell’autenticità dell’Epistola a Cangrande e della Quaestio de aqua et terra, contestata da altri dantisti; ed estende durata e continuità del soggiorno veronese negli ultimi anni del poeta, anche sulla scorta di una lettera di Cangrande a Enrico VII, scritta nell’agosto 1312, il cui autore sarebbe a suo giudizio lo stesso Dante (quest’agnizione è stata revocata in dubbio da Alberto Casadei).
Ma anche volendo prescindere dalle questioni puntualmente discusse nel volume, dagli affondi di Pellegrini si ricava un’indicazione di metodo valida anche al di là del caso dantesco. Riflettendo sulle date e le sedi di stesura dei libri del Convivio e del De vulgari eloquentia, per esempio, il filologo osserva che «una lettura deterministica del rapporto tra testo e contesto va condotta con estrema cautela». Più volte, in effetti, Pellegrini invita a non leggere la Commedia «come una sorta di instant book», in cui cioè il poeta avrebbe trasferito immediatamente l’effetto della situazione politica e dell’esperienza contingente. Il livello del racconto (o dell’invenzione) e quello della Storia, sebbene entrambi orientati lungo l’asse del realismo, non sono sempre complanari. Questa consapevolezza è uno dei punti rilevanti del libro di Pellegrini, che v’imposta la sua rilettura della vita di Dante. Ma, come dicevo, il principio è applicabile anche ad altri autori, fino al Novecento, e oltre. Occorrerebbe infatti tenere sempre a mente che può esistere una sfasatura tra la contingenza e la riconfigurazione letteraria, evitando di considerare il testo come un codice per decifrare il contesto, e viceversa.