Se c’è una cosa difficile per un cineasta è filmare l’invisibile per eccellenza, ovvero gli odori e i profumi. Tradurre in immagini le sensazioni che escono da una fragranza significa seguire prima di tutto un percorso soggettivo perché il rapporto con gli odori è molto personale. Per dirla in parole povere, quello che a una persona sembra un profumo inebriante a qualcun altro può dare fastidio, ciò che colpisce qualcuno a qualcun altro non dice nulla. Gli odori poi accompagnano spesso sensazioni, ricordi, incontri ed esperienze a volte gradevoli altre volte da dimenticare: si può ricordare la via di una città per il profumo di pane o di mare e un’altra per l’olezzo di fritto o di fogna.

 

 

C’è poi un altro ostacolo da superare, se non si vuole restare prigionieri di condizionamenti e consuetudini, ed è quello del marketing. La pubblicitià dei profumi ci ha abituato a spot che, con l’intento di trasmettere l’idea di unicità di una fragranza, la abbinano a corpi e volti che vorrebbero sedurre, intrigare, alludere, strapazzare con lo sguardo, ammiccare, emergere dalla massa, impressionare. Il risultato è quasi sempre un assemblaggio di immagini prevedibili e stucchevoli. Ma che cosa succede se si lancia un concorso e si dice ai partecipanti di tradurre liberamente in corti solo le sensazioni di un profumo dimenticandosi del brand e dello spot?

 

 

 

 

Lo ha fatto Marjorie Olibere, titolare dell’omonima casa di profumi con sede a Tolosa, che al recente Filmmaker Festival di Milano ha proposto il concorso aperto ad amatori e professionisti «Fragrance in Motion Awards». La precondizione era una sola: non produrre uno spot, ma creare libere connessioni di immagini a partire dalle sensazioni evocate dalle sette essenze ricevute. Fra i diciassette finalisti, di cui nove italiani, per la sezione professionisti il Gran Prix è stato vinto da A Necessary Decay dell’americano Seth Yergin, mentre il premio speciale della giuria è andato al filippino Untitled di Cam Sera Jose e a Hypnoise dell’italiana Rosamagda Taverna.

 

 

 

Il tema di filmare l’invisibile è stato affrontato anche nella masterclass tenuta da Michelangelo Frammartino secondo cui l’invisibile non è più e soltanto ciò che sta fuori dal quadro, ma ciò che sta dentro la scena. L’esempio è il suo Alberi, un film installazione che si ispira a un culto praticato ad Armento, in Basilicata, in cui un gruppo di uomini va nei boschi, si traveste da albero e poi, attraversando campi e prati, si sposta in processione nella piazza del paese, la trasforma in un bosco e così inverte il rapporto selvaggio/civilizzazione. Lì l’invisibile sono i piedi e le mani che talvolta si intravvedono fra i rami, ma che la gente del paese, e lo spettatore con lei, vuole e non vuole vedere perché in quel preciso momento ciò che conta non è ciò che è reale, ma ciò che si desidera vedere: l’uomo divenuto albero e l’albero uomo.