Filippo Gentiloni è stato parte rilevante della storia del manifesto. Un quasi-fondatore arrivato in via Tomacelli dalla Compagnia di Gesù. Per diversi decenni si è occupato dei rapporti tra religione, cultura, politica e società. Lo ha fatto con determinazione e coltivando, sempre, la forza del dubbio. Le sue riflessioni, mai scontate, si potevano leggere su Rocca e, andando al secolo scorso, su Com Nuovi Tempi (oggi Confronti). Ma il suo giornale è stato il manifesto. Anche in anni difficili, la fine degli ’80 e i primi ’90 quando, non sempre d’accordo con le scelte di fondo del quotidiano, decise – nonostante altre interessanti proposte di collaborazione – di restare. Un legame fatto di alti e bassi – come accade nei legami solidi – dovuto essenzialmente alla possibilità che il manifesto offriva di indagare i sentieri della fede nei percorsi della politica.

Era un credente laico, interessato al fluire della storia, ai movimenti – da quelli che chiedevano giustizia sociale, pace e rispetto dell’ambiente, a quello delle donne, fino al pensiero della differenza – e all’incontro con il fatto religioso, anzitutto quello cattolico: «Su quello che è accaduto nel corso dell’ultimo secolo gli studiosi hanno riflettuto abbondantemente. Basti ricordare – scrive ne La verità prepotente, manifesto libri 1995 – il fallimento di quelle ‘magnifiche sorti e progressive’ che avevano promesso al nostro occidente una salvezza, una redenzione positiva (il ‘positivismo’) che non soltanto non sarebbe stata religiosa, ma che anzi, avrebbe emarginato il fatto religioso come inutile, forse anche dannoso perché alienante. Tali ‘sorti’ erano targate diversamente – cultura liberale, marxista, radicale… – ma avevano in comune quel laicismo». In tutte le riflessioni Filippo Gentiloni ha tenacemente contrapposto il laicismo alla laicità che «non esclude, tutt’altro, il fatto religioso, per lo meno nella sua versione cristiana». Sul finire del secolo scorso «il fatto religioso, prima emarginato, ha ripreso fiato e vigore, mentre le altre salvezze gli lasciavano il posto in prima pagina, trasportato più che dalla propria vittoria dalle sconfitte altrui».

Ma la chiesa che – in particolare nel pontificato wojtyliano – occupa le prime pagine e i Tg, con folle immense che accompagnano il papa polacco, davvero ha vinto? Oppure – come scriverà ne La chiesa post-moderna (Donzelli 1998) – «la chiesa rischia di pagare il prezzo di un notevole appiattimento della sua cruciale missione. Non più e non tanto la verità sembra infatti essere l’oggetto della sua predicazione», non la carità (intesa come amore verso il prossimo), «quanto piuttosto la ricerca della consolazione; non tanto l’aldilà quanto al di qua». Così persino il sacerdote finisce con «l’essere spesso un succedaneo dell’operatore sociale o dello psicologo». Ed è una supplenza che non giova né alla società pluralista e multiculturale né all’autenticità del messaggio cristiano.

Ecco, allora la ricerca del confronto serrato con i laici – a cominciare dal bel libro scritto con Rossanda La vita breve. Morte, resurrezione, immortalità. E ancora, gli incontri di Monte Giove (con, tra gli altri, Rossanda, Ingrao, Zarri, Tronti, padre Calati), il dialogo fitto con laici credenti anche di altre confessioni, a cominciare dai valdesi. E tutto confluiva nelle pagine del manifesto. In redazione Filippo Gentiloni passava con frequenza di mattina, con la sua mite fermezza e la capacità di ascolto. E i suoi dubbi… Così esposti in Abramo contro Ulisse (1984): «Il sogno di Itaca, con Penelope intatta, il cane Argo che ti riconosce annusandoti, i conti che tornano tutti. Abramo, invece, non sapeva dove andava, sapeva soltanto che doveva lasciare. Gli ebrei conoscono solo l’asprezza piatta del deserto, non la mappa della terra promessa. Gesù in croce urla disperato perché tutti, perfino il Padre, lo hanno abbandonato. L’avventura della fede non si iscrive nel cerchio dell’eterno ritorno ma nella linea retta di un cammino senza appigli, senza sicurezze. Credo, Signore: aiuta la mia incredulità!».