Oramai sta diventando un genere letterario. Confindustria e sindacati che scrivono al governo per chiedere interventi che impediscano chiusure, fallimenti, licenziamenti e ammortizzatori sociali.
Dopo l’auto alle prese con la transizione elettrica è toccato alla ceramica colpita dal caro energia. «Il drammatico aumento dei costi delle commodities energetiche, in particolare il gas naturale e l’energia elettrica, possono determinare il crollo di marginalità importanti, in settori altamente energivori come quello ceramico, costituito da oltre 300 imprese ed un fatturato di circa 6.500 milioni di euro, compromettendone la competitività industriale e mettendo a rischio questo importante comparto dell’economia nazionale», scrivono il presidente di Confindustria Ceramica Giovanni Savorani e i segretari generali di Filctem Cgil, Femca Cisl, Uiltec Uil – Marco Falcinelli, Nora Garofalo, Paolo Pirani – al presidente del Consiglio Mario Draghi, al ministro dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti, al ministro del Lavoro Andrea Orlando e al ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani.

Le filiere energivore sono le più in difficoltà. Da settimane si rincorrono allarmi su aziende piene di ordini che bloccano la produzione per il «caro bollette». Oltre alla ceramica ne fanno parte l’acciaio, il vetro, tutta la metallurgia, i petrolchimici e la carta.

«L’energia è una cosa di sinistra perché colpisce tutti i settori in modo equanime», commenta con sarcasmo il segretario confederale della Cgil Emilio Miceli.
Senza dare troppo peso alle solite catastrofiste previsioni dell’ineffabile Cgia di Mestre che stima su 1,8 milioni di occupati in aziende energivore in ben 500 mila i posti a rischio, iniziano ad essere consistenti i casi di cassa integrazione per circa 1.500 lavoratori.

IL PIÙ GRAVE è in una delle zone più povere del paese e più colpita dalla crisi del 2008: il Sulcis. La Portovesme Srl – controllata dal colosso anglo-svizzero Glencore – che produce zinco ha messo in cig ben 410 dipendenti: a turno restano a casa 170 addetti, mentre 32 lavoratori interinali non saranno riconfermati. Passando alla siderurgia la Fonderie Torbole nel bresciano ha bloccato la produzione per 40 giorni mettendo 200 lavoratori in cassa integrazione.

NEL DISTRETTO DELLA CERAMICA di Sassuolo (Modena) a gennaio ci sono stati molti stop: il gruppo Moma con tre stabilimenti e 350 dipendenti è stato fra i primi assieme alla Grestone di Spilameberto. Stessa sorte per il distretto laziale: la Saxa Gres di Anagni e Roccasecca (Frosinone) con conseguenze anche nello stabilimento di Gualdo Tadino (Perugia).
Un altro caso riguarda la Yara di Ferrara che a ottobre ha bloccato per un mese e mezzo la produzione di Adblue, la soluzione a base di ammoniaca utilizzata per abbattere le emissioni dei motori diesel. Per evitare la cassa integrazione i 140 lavoratori hanno accettato di fare lavori di manutenzione più percorsi di formazione.

CI SONO POI AZIENDE PIÙ GRANDI che hanno deciso di rimodulare la produzione sfruttando gli orari in cui l’energia costa meno come la notte, così alla Gardiplast di Scorzè (Venezia) o alle acciaierie Feralpi.

Gli interventi del governo – Iva al 5% più 540 milioni per le grandi aziende – hanno dato un po’ di ossigeno ma di certo non sono stati risolutivi. E c’è poco ottimismo anche sul nuovo intervento annunciato ieri da Draghi.

«Il governo dovrebbe ascoltare le proposte di noi parti sociali – continua Miceli – per interventi strutturali e duraturi, non improvvisati: a rischio ci sono filiere di sistema che tengono in piedi industrialmente il nostro paese».

Nel quadro di dolore ci sono poi le eccezioni. Le aziende elettriche ad esempio: Enel in testa, che nel 2021 ha avuto utili in aumento del 6,7% pari a 1,2 miliardi di euro, più molte utility come Acea, Iren e A2a.
Ma guai a parlare di prelievo su questi extraguadagni come ha provato a fare il governo Sanchez in Spagna: «Sarebbe una patrimoniale inaccettabile», ha commentato più di un esponente della maggioranza Draghi.