1972. Piazza San Marco. Al 35° Festival internazionale di musica contemporanea della Biennale di Venezia Merce Cunningham presenta uno dei suoi famosi Events. Cinquant’anni dopo il 16° Festival Internazionale di Danza Contemporanea della Biennale diretto da Wayne McGregor torna con la memoria a quel lontano 14 settembre, chiudendo la programmazione con un duplice omaggio al coreografo americano: la proiezione del film Craneway Event di Tacita Dean e il Cunningham Event con i sedici danzatori del College. Che esperienza per questi giovani: seguiti da due storici danzatori della Merce Cunningham Dance Company, Daniel Squire e Jeannie Steele, i ragazzi del College si sono sfidati in estratti da titoli culto del maestro americano come Changing Steps, Pond Way e RainForest, un denso apprendistato dentro quartetti, soli, ensemble, ricomposti per l’Event veneziano in una sequenza inedita.

UN’AVVENTURA immersa nella luce del pomeriggio del 31 luglio, iniziata lentamente su tre piattaforme galleggianti apparse alla gente in attesa sui ponti del canale di Sant’Elena. Pose, tilt, nitidi intrecci di forme in movimento: a dispetto del caldo, i danzatori in costumi accademici unisex rossi, gialli, azzurri, verdi, fucsia (di Matthieu Blazy per Bottega Veneta), hanno danzato sull’acqua in viaggio verso l’Arsenale. Scenderanno davanti al Teatro alle Tese per continuare, sempre all’aperto, la performance. Musica di Jlin eseguita al momento (in linea con l’indipendenza tra le arti di cunninghamiana memoria), quarantacinque di minuti sotto il sole infuocato delle 18.00 (bella resistenza i ragazzi) faccia a faccia con un repertorio incredibile. Oggi come tanti anni fa la luminosità del pensiero di Cunningham è un insegnamento che riporta all’essenziale: «La tecnica è la disciplina delle energie attraverso un’azione fisica tesa a liberare quella stessa energia nella sua più alta forma fisica e spirituale nell’istante desiderato» (1951). Una visione che vibra, vitale, anche nel film di Tacita Dean, Craneway Event.

«Jurrungu Ngan-ga» di Marrugeku, La Biennale di Venezia © Andrea Avezzù

GIRATO nel 2009, pochi mesi prima della scomparsa di Cunningham, questo film anamorfico a colori in 16 mm di 108 minuti, consegna ai posteri tre giorni di prove di un Event nell’ex stabilimento di assemblaggio della Ford, a Richmond, in California. Cunningham è in carrozzella, guarda i suoi fogli di appunti, parla con i danzatori, rivede con loro le entrate, le uscite, come relazionare nello spazio, rispetto a tempi e alle direzioni dei corpi, gli estratti di repertorio. Il montaggio di Dean, realizzato con camere fisse, ha un tempo nei tagli disteso, lontano dai ritmi serrati a cui siamo abituati con il digitale. I controluce nell’immensa fabbrica, la baia all’esterno, le pause dagli accadimenti che non sono mai tempi morti, la bellezza del rapporto tra Cunningham e i suoi danzatori, la lucidità nelle correzioni, ci portano dentro il tempo reale delle prove. Ed è, come segnala la stessa Dean, la grana della pellicola, il rumore del proiettore, a rendere acuta la percezione di un tempo lento.

Un’avventura immersa nella luce del pomeriggio del 31 luglio, iniziata lentamente su tre piattaforme galleggianti apparse alla gente in attesa sui ponti del canale di Sant’Elena.

TRA GLI ULTIMI titoli presenti al Festival colpisce Jurrungu Ngan-ga/Straight Talk della compagnia australiana Marrugeku. Lo spettacolo, in prima europea, è dedicato a tutti coloro che sono morti in prigionia nell’arcipelago carcerario australiano e a coloro che si sono tolti la vita in risposta al trauma della carcerazione. Porta la doppia firma delle direttrici di Marrugeku, Dalisa Pigram (coreografia) e Rachael Swain (regia). Pigram appartiene alla cultura aborigena Yawuru/Bardi, Swain è originaria della Nuova Zelanda, il loro lavoro unisce artisti indigeni e non, puntando a performance interculturali di denuncia.
In Jurrungu Ngan-ga / Straight Talk lasciano senza fiato i poliedrici performer attori, danzatori, cantanti, protagonisti di una scrittura incalzante su colonialismo e potere. Un muro diventa alternativamente schermo o carcere, i lampadari, simbolo di ricchezza, scendono dall’alto a mischiarsi, arroganti, alle battaglie di chi ha pochi diritti, mentre i corpi, in una danza ancestrale quanto contemporanea, piangono il rapporto negato dal potere con la terra. Una voce che dà corpo a minoranze linguistiche, culturali, di gender, che a Venezia vive non solo al Festival di McGregor: si espande, propositiva, anche alla Biennale Arte, come tra i padiglioni dei Giardini, da Sovereignity di Simon Leight sulla soggettività femminile nera (Stati uniti), a Les rêves n’ont pas de titre di Zineb Sedira (Francia), istallazione cinematografica immersiva sullo sfondo dell’Indipendenza dell’Algeria: «un ballo» indicano le note della mostra «che invita lo spettatore a danzare per resistere».