Se avete intenzione di fare figli a un’età non più verde, mettete in conto che vi troverete sulla soglia della pensione ad aspettare in auto, e di notte, che il pargolo finisca di ballare. È quello che sta succedendo a molti padri e madri che, in virtù della recente riapertura delle discoteche, hanno ricominciato, o cominciato, quella pratica di autista attendista che ognuno affronta con spirito, abbigliamento e atteggiamento variabile.
Gli scambi di esperienze scorrono sui social e sono tutte un programma. Scrive Massimo Rebotti, che a far tardi è abituato perché lavora al Corriere della sera: «Scene d’amore implicite il sabato notte. Padri che dormono dentro abitacoli di auto in seconda fila, in attesa di figlie “ancora cinque minuti” dentro alle discoteche».
Il sasso è lanciato. Da lì affiorano racconti di suoi consimili che gettano luce sull’amore genitoriale contemporaneo, con annessi spirito di sacrificio e autoironia. Tutti sappiamo che quegli «ancora cinque minuti» nella migliore delle ipotesi diventeranno venti, o trenta, roba che alle tre del mattino può fare una certa differenza, soprattutto se, come capita a chi abita lontano dai luoghi della festa, ha dovuto fare trenta chilometri per andare e ne farà altrettanti per tornare.

Per evitare questo andirivieni, alcuni si portano avanti e stazionano nel parcheggio, per alcune ore, con thermos e coperte e poter così dormire al caldo, nell’abitacolo, anche perché molti di questi locali sono spesso in mezzo a lande desolate, e se non lo sono, a quell’ora è tutto chiuso e, insomma, bisognerebbe che qualcuno cominciasse a pensare di mettere a disposizione di questi professionisti del bivacco genitoriale una stanza, qualche genere di conforto, alcune chaise longue.
Poiché la fantasia è una dote nazionale, e l’abitudine rende attrezzati, c’è chi va lì con il pigiama sotto il cappotto (così è già pronto per il rientro), reclina lo schienale e lì riesce a dormire scatenando profonde invidie nei vicini di auto meno allenati. La cosa apre dibattiti sull’abbigliamento, soprattutto dei padri in attesa, consapevoli di rappresentare «un disastro estetico di grandi proporzioni».
Variegati poi sono gli atteggiamenti. C’è chi rimpiange quelle notti scomode perché vuol dire che i figli sono cresciuti, e neanche tu sei più tanto giovane, e chi dice, con un certo sprezzo per il sentimentalismo, «se hanno l’età per andare sanno anche tornare», cosa che fa alzare qualche sopracciglio, e rispondere, «certo, tornare da sole alle due o tre di notte…qualsiasi genitore dormirebbe sonni tranquilli», mentre altri commentano «i miei amici andavano a prendere pure i figli maschi adolescenti».

Io una roba così non l’ho mai fatta, un po’ perché vivendo a Milano era facile dire: «Ti dò i soldi per un taxi», un po’ perché non possedevo l’auto, e quindi c’era poco da scegliere. Ma non erano notti in cui ringiovanivi. C’era sempre in sottofondo quel timore che se ne va solo quando senti girare la chiave di casa, o lo sforzo di non pensare al telefono, che può annunciare di tutto, e quindi fai di tutto per evitarlo. Sai anche che prima o poi devi lasciarli andare, se vuoi che diventino adulti, e che con le tue paure devi imparare a convivere, perché tu sei tu e loro sono loro, e va bene così. Comunque, la medaglia d’oro per l’abnegazione, e l’ingiustizia ricevuta, va a quel padre che accompagnò il figlio quindicenne e la sua band dalla Valle D’Aosta a Roma, a gratis, e non lo invitarono neppure al concerto perché il compenso previsto era solo la cena per il gruppo. Un gestore davvero simpatico e altruista, quello lì.

mariangela.mianiti@gmail.com