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Fidel Castro baseball o rivoluzione

Fidel Castro baseball o rivoluzione

Sport La storia cubana avrebbe potuto avere un altro epilogo, se il Lider Maximo avesse scelto la carriera sportiva

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 16 febbraio 2019

Lo sport, strumento per costruire il consenso. Ma soprattutto, passione fino all’epilogo della sua esistenza, specialmente il baseball, che l’ha avvolto da giovane, con guantoni e cappellino in prima base assieme a Che Guevara e Camilo Cienfuegos, nello stadio Latinoamericano, un tempio pagano per il popolo cubano. E senza dimenticare le discipline olimpiche, il pugilato, con Alberto Juantorena, due medaglie ai Giochi di Montreal 1976 che sul podio a cinque cerchi scoppiava a piangere per l’anniversario dell’assalto alla Moncada di Santiago, del luglio 1953, per il sangue versato da Fidel e compagni, il primo passo verso la Revoluciòn. Oppure l’atletica leggera, il salto in lungo, Ivan Pedroso, quattro volte campione del mondo, o il salto in alto, con il fuoriclasse Javier Sotomayor.

“Non perdo una gara olimpica in televisione, dai pesi al taekwondo, dal ciclismo al volley, tutto lo sport mi piace. Anzi, è nello sport che avrei dovuto dare il meglio di me, non in politica…”, spiegava Fidel, con la solita verve e oratoria. Seguiva gli eventi sportivi soprattutto attraverso il figlio prediletto Tony, per anni medico, guarda caso, della nazionale di baseball.

E chissà cosa ne sarebbe stato a Cuba della Revolucion, che compie 60 anni oggi, se il Comandante avesse sfondato con lo sport simbolo dell’isola caraibica e degli Stati Uniti. Se fosse divenuto un professionista, senza indossare la tuta militare. Era un lanciatore con discreto talento, con una traiettoria di palla carica di effetto. Non un predestinato del gioco, pare, forse troppo poco per finire nella Major League Baseball, il campionato professionistico americano, il punto più alto del baseball mondiale. Anche se Fidel sostenne anche un paio di provini, prima della Rivoluzione, respinto con perdite due volte dagli Washington Senators.

Mentre è avvolto dalla leggenda – senza conferme ufficiali -, qualche lancio in prova per i New York Giants, con i mitici Yankees, che gli avrebbero anche offerto cinquemila dollari, rifiutati, per metterlo sotto contratto. Insomma, pure per gli americani, anche per non alimentarne la leggenda, Castro non era destinato al baseball. L’unica traccia di Fidel al lancio per la squadra della sua facoltà di legge risale al 1946, citata da un professore di Yale University, Roberto Gonzales Echevarria, nel libro The History of Cuban Baseball. E pure uno scrittore, Tim Wendell, con il romanzo Castros’ Curveball si chiede cosa ne sarebbe stato di Cuba senza il Lider Maximo, invece impegnato a lanciare in pedana, anzi promettente stella del baseball, prossimo all’ingaggio con i Senators.

Anche se il baseball era lo sport per i chicos meno abbienti. Fidel invece studiava, veniva da una famiglia benestante. Ma in pedana ci finì lo stesso, assieme al fratello Raul, al Che – che da buon argentino preferiva la pelota accarezzata dai piedi, il calcio – e a Cianfuegos con le esibizione dei Los Barbudos, con partite, tra le altre, contro la squadra della polizia cubana, come nel 1959, tra colpi vincenti e battitori eliminati. Si chiamavano Los Barbudos perché durante il periodo con i compagni di squadra in montagna, Fidel decise che nessuno avrebbe dovuto rasarsi.

Dunque, non un fenomeno in campo, ma capace di trasformare il baseball – inteso come istituzione – in una macchina straordinaria per la propaganda, per edificare la società rivoluzionaria, non senza qualche doloroso e violento passaggio a vuoto. Un esempio, una fotografia del Paese, i muscoli mostrati all’opulento e corrotto Occidente, lo stesso linguaggio del corpo mostrato dall’Unione Sovietica attraverso i suoi campioni. Nella sua era, Cuba era una potenza mondiale, produttrice senza sosta di fuoriclasse, campioni, forti giocatori, con tre ori alle Olimpiadi e quando andava male c’era l’argento (in due occasioni), poi Mondiali, Giochi Panamericani, piuttosto sentiti.

E pure l’argento all’esordio nella World League Classic. E anche con l’arrivo dell’età matura per Castro, poi della vecchiaia e della malattia, si passava sempre attraverso mazza e palline per scrivere pagine di politica internazionale. Venti anni fa, l’avvio dell’uscita dal freezer dei rapporti diplomatici tra Cuba e Stati Uniti fu suggellata dall’amichevole allo stadio Latinoamericano – quello delle partitelle con il Che –, 50 mila spettatori ad ammirare i Baltimore Orioles, 40 anni dopo per una squadra americana sull’Isola, per volere sia di Castro che dell’amministrazione targata Bill Clinton, che stava allentando le maglie dell’embargo.

E tre anni dopo ancora baseball, il pezzo forte della visita dell’ex inquilino della Casa Bianca, Jimmy Carter, altra tappa per ammorbidire le parti, invitato a una partita con l’onore del primo lancio. E pure per la visita di Barack Obama, nel 2016, nel menu c’era baseball, amichevole tra la nazionale di casa e i Tampa Bay Blue Rays. Sulla tribune con il presidente americano sedeva Raul, il fratello. Incoronato da Fidel, da tempo ammalato. Ma che fino alla fine non ha mai accettato (anche attraverso forme di violenze, di repressione per i dissidenti) che i migliori giocatori di baseball cubani, dilettanti – il professionismo venne abolito proprio da lui, 60 anni fa perché per interessi commerciali avrebbe trasformato le Olimpiadi e le altre competizioni in semplice mercanzia – provassero ad abbandonare la Isla per gli Stati Uniti, per una carriera ad alto livello, per tanti e tanti pezzi verdi in tasca.

Come negli anni passati è accaduto con Yeonis Cespedes, star nazionale con contratto da oltre 100 milioni di dollari ai New York Mets. Uno di quelli che non ha più vissuto l’obbligo (ora rimosso) di versare l’80% del salario al governo cubano. Una delusione per Fidel pari solo alla sconfitta della nazionale cubana in finale alle Olimpiadi di Pechino, contro la Corea del Sud, amica degli yankees che proprio Cuba aveva eliminato in semifinale. Mentre una soddisfazione gli è arrivata da Omar Linares, uno dei peloteri più forti della storia cubana, che rifiutò un contratto a tante cifre dai New York Yankees, speigando di preferire di giocare per dieci milioni di cubani, piuttosto che per dieci milioni di dollari.

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