Fid Marseille anno zero. O anno uno? Chissà. Di fatto nella proposta il festival francese che ha chiuso qualche giorno fa la sua 33a edizione, la prima senza il suo storico direttore Jean-Pierre Rehm che ha lasciato agli inizi dell’anno, poco è cambiato: stesse scelte «editoriali» con un cinema che si pone tra le diverse arti, e in cui si superano i binomi di genere – finzione/documentario – o le distinzioni di formato e di durata. E non potrebbe essere altrimenti in un programma nel segno di Albert Serra – a cui era dedicata la retrospettiva – che ha portato sugli schermi della città francese anche il suo nuovo (e magnifico) Pacifiction (era in concorso al Festival di Cannes), macchina cinema desiderante e sensuale in questa incursione a Tahiti, spesso notturna, percepita e ricreata dietro agli occhiali scuri del protagonista (Benoit Magimel), alto commissario in Polinesia della repubblica francese, che la rende un altrove letterario e l’immagine di una contemporaneità post-coloniale e di una «innocenza» perduta – per l’Italia lo ha comprato Movies Inspired, perciò avremo la possibilità di vederlo anche qui.

«Unstable Objects II» di Daniel Eisenberg

POI LA CARTE Blanche a Mathieu Amalric, altra presenza abituale al festival; l’esuberante attore francese, e bravissimo regista – il suo Stringimi forteSerre-moi fort è tra i film più sorprendenti dell’anno – protagonista nel prossimo film di Nanni Moretti, Il Sol dell’Avvenire, ha presentato al pubblico i suoi film del cuore, quei titoli che lo hanno ispirato e che hanno segnato la sua relazione col cinema, e anche alcuni suoi lavori e una performance. La folie Amalric ha portato il pubblico – molto numeroso – tra le immagini scanzonate di Otar Ioseliani in C’era una volta un merlo canterino (1970) – «Se avessi dovuto scegliere uno solo film avrei scelto questo, è il più bel film del mio mondo, quello che mi ha formato moralmente, musicalmente, emozionalmente… Otar mi ha fatto cadere dentro al cinema» – a The World of Jerry Lewis di Annett Wolf (1972) – «L’autrice ha avuto tante vite, e non è ancora finita. A 85 anni si è trasferita a Halifax, in Canada, sperando di riuscire a filmare il lupo delle nevi, una visione che l’accompagna dall’infanzia».
In Marseille, Musil, Monstre, la perfomance costruita appunto per l’occasione, Amalric ha immaginato coinvolgendo diverse persone via whatsapp, tra cui Vicky Krieps, protagonista di Serre-moi fort, di preparare in una notte una scena da girare il giorno dopo, testo di riferimento Robert Musil, L’uomo senza qualità. Mentre le ore passano e la fatica cresce, le parole prendono forma negli appunti che le restituiscono in una possibile sequenza di immagine. Questa ricerca nel processo della creazione attraversava i suoi film, da Maitres anciens (comèdie), girato nel teatro vuoto a Parigi durante la pandemia, quando la situazione dello spettacolo era molto incerta, in cui il presente risuona nel testo di Thomas Bernhard; o il terzo capitolo insieme a John Zorn – ve ne saranno probabilmente altri – nel quale si seguono le prove della cantante Barbara Hanningan per interpretare una composizione dello stesso Zorn.

DUNQUE nessun cambiamento? In realtà no, al contrario molto era diverso specie laddove un festival non è solo programmazione – e Fid Marseille non lo è, non lo era almeno, visto che è un festival con budget medio-alto,

Benoît Magimel in «Pacifiction» di Albert Serra

circa due milioni di euro la cui vocazione però era anche quella di far incontrare le persone, di creare uno spazio comune. Questo stavolta è mancato nonostante la gentilezza dell’accoglienza come è mancata una energia, e soprattutto il senso di un passaggio. Forse perché di fatto non c’è stato: il Fid dopo avere lanciato una call per la nuova direzione in inverno ha deciso che nessuno dei candidati andava bene optando per una direzione collettiva «rappresentata» da Tsveta Dobreva, Cyril Neyrat, Fabienne Moris. Un esperimento che ha mantenuto le stesse persone frustrando (forse) quel cambiamento di cui c’era anche necessità perché la «linea» della manifestazione aveva un po’ mostrato i suoi limiti nel tempo. Un direttore o una direttrice inoltre è qualcuno che si fa responsabile di un progetto con cui confrontarsi per chi è «esterno» cosa che qui era difficile da capire.

A SOFFRIRNE è stato specialmente il concorso internazionale assai fragile, con film in cui spesso risuonavano i «maestri» di riferimento – tipo Apichatpong Weerasethakul – in modo goffo e senza grande elaborazione personale. Ha vinto il migliore davvero, cioè The Unstable Object II di Daniel Eisenberg (presidente della giuria Mati Diop con Joao Pedro Rodrigues, Ted Fendt, Pagtrick Holzapfel, Banhi Koshnoudi) che era già stato premiato al Fid nel 2011 con il precedente The Unstable Object. Un documentario nel quale l’autore continua a interrogarsi sui processi di produzione in relazione alla materia, agli oggetti, ai corpi, alle tecniche di lavoro. Tre fabbriche molto diverse, la prima in Germania produce arti artificiali, la seconda, Maison Fabre, è un laboratorio di lusso in Francia che confeziona guanti, la terza è una fabbrica in Turchia dove si confezionano jeans. Ognuna interroga il lavoro e il ruolo del lavoratore passando da una produzione mirata – che significa anche modalità di lavoro specifiche – a una di massa automatizzata, una differenza che guarda al futuro, al rischio della cancellazione di esperienze verso un anonimato ancora più sfuttabile.

NEL CONCORSO francese «giurati Dounia Sichov, Manuel Asim, Patric Chiha, Mika Biermann,Jazmin Lopez ) è stato premiato On a eu la journée, bonsoir di Narimane Mari, autrice anche lei cara al festival, e produttrice dei film di Hassan Farhadi,uno dei più belli visti nella selezione. Cosa racconta l’autrice? Una storia d’amore, quella col suo compagno, l’artista Michael Haas, e una perdita – lui non c’è più, morto qualche anno fa. Quanto può essere difficile, e doloroso, riguardare le immagini di una vita assieme, di una realtà condivisa, dei luoghi intimi di una relazione? Lei, la regista, mette insieme le immagini seguendo un ritmo che è quello del cuore intrecciato però strettamente alla sua dimensione filmica, al desiderio di trovare una forma per questa materia che l’accompagni con dolcezza. Senza retorica né sentimentalismi Narimane Mari ci porta dentro a un universo poetico e insieme quotidiano, nelle strade di Marsiglia dove abita e tra gli oggetti d’arte, nelle confidenze e tra le parole sussurrate durante la malattia. Si muove delicata, a volte come se narrasse una fiaba, cercando le tracce di ciò che rimane, la vita, la sua energia, i legami. Quello che è lì e ciò che si è trasformato, i momenti di grazia e la tenerezza di un sorriso. Non è facile ma a lei riesce nell’invenzione continua che è il senso più profondo di questa esistenza.