Fid Marseille numero 28, è giovane il festival diretto da Jean-Pierre Rehm ma nonostante il passare del tempo non rischia l’invecchiamento visto che direttore e gruppo (compatto) di lavoro dichiarano come obiettivo principale quello di mettersi in gioco a ogni edizione. Nulla si ripete sugli schermi del Mucem o della Villa Mediterranée o del Varietés anche se le idee che guidano il festival sono coerenti e negli anni hanno formato un «progetto» di cinema estremamente riconoscibile.

 

 

Il Fid 2017 si inaugura stasera (fino al 17 luglio) con The Mask of the Red Death di Roger Corman che è il protagonista della retrospettiva di questa edizione, una scelta politica e sintonizzata con le esplorazioni di un festival che da tempo ha messo da parte la distinzione dei generi per puntare invece a un’immagine (immaginario) capace di restituire un racconto mai banale – né didascalico – del tempo e della realtà. E che prova, al tempo stesso, a ridefinire il termine «documentario» – Fid sta infatti per Festival internazionale del documentario.

 

 

Così nel concorso internazionale (in giuria Sharunas Bartas, Fabienne Babe, Nadia Turincev,Carlos Casas, David Schwatz) il racconto del mondo può passare attraverso una raccolta di ricordi (visivi) familiari (What I Remember di Antoinette Zwirchmayr); un nonno che gestiva un bordello – «per alcuni significa piacere ma è solo un business come tanti» dice la sua voce; un padre banchiere e poi in Brasile, frammenti privati che dicono di una storia occidentale più ampia e collettiva.

 

 

Del diario alla prima persona ha l’andamento (almeno in parte) I vetri tremano, film italiano (anche se è una coproduzione con Cuba) di Alessandro Focareta (Piccolo Mondo), in cui gli appunti dell’autore cercano una corrispondenza negli scritti di Bolano, e il sud d’Italia, da dove si parte conduce a Cuba seguendo la strada del tabacco che gli americani avevano impiantato da noi dopo la guerra. E le foglie, il loro aspetto che cambia secondo il Paese in cui vengono prodotte. Anche quella di Focareta è per certi aspetti una narrazione familiare, alla prima persona, e insieme una storia che riguarda economie, società, vite.

 

 

La realtà può essere anche un paesaggio urbano e esistenziale, quello in cui ci portano le esistenze di Andreia e Leidiane, due ragazzine che abitano nelle periferie di Belo Horizonte, in Brasile, e che la regista, Juliana Antunes, accompagna nel passaggio da lì a un’altra favela, la Baronesa che dà il titolo al film. Distanza ravvicinata e invenzioni narrative, la scommessa (riuscita) è uscire fuori dai codici della rappresentazione di violenza, droga, marginalità, la favela così come è stata iconizzata.

 

 

O ancora laddove si inoltrano Nicolas Klotz e Elisabeth Perceval nel loro nuovo film, L’Heroïque Lande. La Frontière brule, portandoci con sguardo «strabico» rispetto a quello dominante tra i migranti nella «giungla» di Calais dove sono rimastia lungo a filmare prima delle espulsioni.
L’Heroique Lande è, come dicono gli autori nelle note sul catalogo (on line: www.fidmarseille.org): «Un film primitivo e epico, che racconta come questa città nascente, in crescita, dove vivevano quasi 7800 persone viene distrutta per quasi la metà nel febbraio 2016. Di come i migranti espulsi dalla zona sud tentano di farne rinascere le ceneri nella parte nord fino a che lo stato francese non decide di cancellarla del tutto nell’ottobre del 2016 e di disperdere i suoi 11000 abitanti nei quattro angoli della Francia». L’Heroïque Lande era stato l’anno scorso tra i progetti vincitori del Fidlab, lo spazio produttivo del festival in cui i progetti selezionati vengono presentati a possibili partner produttivi che li aiutino a arrivare a termine – tra quelli di questa edizione ci sono il nuovo film di Yuri Ancarani, Barchini, e quello di Rita Azavedo Gomes, A Portuguesa.

 

 

La ricerca di un controcampo allo «stereotipo» della realtà guida anche Sepideh Farsi nel suo 7 Veils (nel concorso francese a cui si aggiungono quello per le opere prime e una serie di sezioni « a tema»), in cui la regista prova a ricondurre altri possibili riferimenti alla narrazione dell’Afghanistan che non siano soltanto talebani e guerra, un conflitto infinito che nei decenni ha cambiato forse obiettivi e ideologie esasperando la distruzione.

 

 

Con la macchina da presa la regista inizia il suo viaggio, scandito da incontri, forse possibili risposte:l’ambasciatore francese, contadini, aristocratici, una donna, veterani del conflitto con l’Unione sovietica, ciascuno con la sua parola per scrivere la Storia,